Nel Seicento, l'Olanda vive il suo secolo d'oro. E' il paese più prospero d'Europa, all’avanguardia nei commerci, nelle scienze, nella cultura, nell’arte. E nei giardini: gli olandesi, sfruttando la loro secolare esperienza nel sottrarre terra al mare, ridisegnano la natura e creano un nuovo modello di giardino, in cui le siepi sagomate dalle forbici dei giardinieri disegnano stanze, padiglioni, teatri di verzura. A differenza del giardino all’italiana, in cui il verde domina, il giardino barocco olandese è colmo di fiori, con parterre multicolori simili ai tappeti persiani tanto amati da Vermeer o Rembrandt. Molti mercanti che si sono arricchiti con i traffici o le industrie investono il loro denaro in tenute di campagna che spesso ospitano vasti giardini, uno status symbol del loro potere e della loro ricchezza. Non possono mancare collezioni di piante esotiche: sono alla base della prosperità dell'Olanda e sono anche il simbolo del suo dominio sul mondo, il segno tangibile di quel nuovo Eden, paradiso in terra ricostruito, che per qualche decennio i Paesi Bassi si illudono di essere. E così non è un caso se Paul Hermann, il più importante botanico olandese del secolo, battezza Paradisus batavus, "Paradiso olandese", il suo libro dedicato alle rarità coltivate in quei giardini. Rarità che molto ha contribuito a introdurre in Europa, prima come esploratore del Capo di Buona Speranza e dell'isola di Ceylon, poi come direttore dell'Orto botanico di Leida. Linneo lo stimava tanto da proclamarlo "principe dei botanici" e da dedicargli, complice Pitton de Tournefort, il genere Hermannia. Sud Africa, Ceylon... Leida Nel 1658, dopo una lunga guerra in cui intervenne a fianco dei sovrani locali (che ancora non sapevano che stavano per sostituire un occupante con l'altro), la VOC (Verenigde Oost-Indische Compagnie, Compagnia olandese delle Indie orientali) espulse definitivamente il Portogallo da Ceylon (oggi Sri Lanka). Da quel momento, esercitò il monopolio del commercio della cannella dell'isola, la migliore in assoluto. Ma impiegati e ufficiali si ammalavano con allarmante frequenza di malattie sconosciute in Europa che i farmacisti e i chirurghi al servizio della Compagnia non sapevano come curare; le medicine portate dall'Europa nel clima tropicale non sempre servivano e perdevano presto la loro efficacia; era urgente studiare la flora locale alla ricerca di piante medicinali alternative. Un influente uomo politico, Hieronymus van Beverningh, che era anche un accanito collezionista di piante esotiche, e il prefetto dell'orto botanico di Leida Arnold Seyen raccomandarono il giovane medico tedesco Paul Hermann (1646-1695), da poco laureato alla prestigiosa università di Padova; si dice fosse interessato alle piante fin da bambino, quando, a dieci anni, rischiò di annegare per esaminare delle piante acquatiche. I suoi sponsor speravano che, oltre a soddisfare gli obiettivi della Compagnia, potesse anche arricchire le loro collezioni. Dunque, in un certo senso Hermann è il primo cacciatore di piante al servizio di un orto botanico. Partito per Ceylon all'inizio del 1672, ad aprile approfittò dello scalo al Capo di Buona Speranza per raccogliere piante sudafricane; e altrettanto fece durante il viaggio di ritorno, nel marzo del 1680. A parte il precedente della piccola raccolta di Justus Heurnius (che però era un teologo, non un botanico), si tratta del primo contatto di un botanico europeo con la flora del Capo. Con gli esemplari raccolti (circa 800, secondo la testimonianza di Linneo) formò un erbario; spedì semi e bulbi in Olanda, e altri li affidò al chirurgo di bordo Hieremias Stolle, di ritorno in Europa. Questi a sua volta li passò all'anatomista danese Thomas Bartholin che nel 1775 pubblicò la breve nota "Plantae novae Africanae", la prima pubblicazione a stampa dedicata esclusivamente a piante sudafricane. A Ceylon, come "medico ordinario e medico capo" della VOC, Hermann si stabilì a Colombo, sede del quartier generale della Compagnia; creò e diresse un ospedale, esplorò assiduamente la flora dei dintorni, annotando i nomi locali e le proprietà medicinali delle piante. Con questi materiali mise insieme diversi libri di erbari e almeno un volume di illustrazioni (non è certo se di sua mano o di altri anonimi disegnatori); inoltre inviò più volte bulbi e semi in Olanda. Sebbene siano limitate alla zona intorno a Colombo (gli olandesi controllavano solo alcune aree costiere) e includano anche diverse specie coltivate introdotte, le sue raccolte sono impressionanti per quantità e per la qualità delle annotazioni, senza contare l'eccezionale valore storico, trattandosi del primo studioso europeo a esplorare la flora dell'isola, ai suoi occhi un vero Eden. Intorno al 1674 visitò anche brevemente il Malabar dove forse incontrò van Rheede, che potrebbe averlo consultato per il progetto che poi divenne Hortus malabaricus. L'esplorazione della flora singalese diede grande fama a Hermann, tanto che nel 1678, alla morte di Arnold Seyen, i rettori dell'Università di Leida decisero di chiamarlo a succedergli come professore di botanica e prefetto dell'Orto. Hermann accettò e tra la fine del 1679 e l'inizio del 1680 lasciò Ceylon per tornare in Olanda. Nelle sue lezioni, fu il primo botanico olandese a prestare attenzione alla tassonomia; creò anche un proprio sistema, basato sui frutti, che univa e modificava quelli di Ray e Morison. Oltre che a Leida, fu adottato in altri orti botanici, tra cui Uppsala ai tempi di Rudbeck il vecchio. Deciso a fare dell'Orto di Leida il migliore d'Europa, solitamente dedicava le pause accademiche a viaggi in altri paesi europei per consultare colleghi e appassionati e procurarsi piante; nel 1682 fu in l'Inghilterra, dove visitò tra l'altro gli orti botanici di Oxford e Chelsea, e ne riportò più di 200 piante vive (soprattutto nord americane); nel 1688 andò a Parigi ad incontrare Tournefort; qui strinse amicizia con l’inglese William Sherard, che decise di seguirlo a Leida. Dal 1686, assunse anche l'insegnamento di medicina pratica. Durante la sua gestione, l'orto botanico di Leida divenne il principale centro europeo di acclimatazione e diffusione delle piante provenienti dalle colonie americane, africane e asiatiche. Oltre alle sue introduzioni dirette dall'India e dal Sud Africa, poté sfruttare i suoi contatti con la VOC e con i principali collezionisti olandesi, nonché con l'Inghilterra e la Francia, per triplicare le collezioni (il suo catalogo del 1687 registra tremila specie, contro le circa 800 di inizio secolo); molte erano subtropicali o tropicali. Nel 1681, fu tra i primi a sperimentare una serra riscaldata. Olanda, un secondo Eden? Hermann morì nel 1695 a soli 49 anni (qui una sintesi biografica), lasciando incomplete e inedite diverse opere; l’unico suo libro pubblicato in vita fu infatti il catalogo dell’orto botanico di Leida (1687). Quella a cui teneva di più, e a cui lavorava da diversi anni, era Paradisus batavus, un catalogo illustrato delle piante di recente introduzione nei giardini olandesi. Già nel 1689 l'affezionato Sherard ne aveva pubblicato l’indice, e alla morte inaspettata del maestro e amico si assunse il compito (ingrato, visto lo stato del manoscritto) di curarne la pubblicazione; a spese della vedova di Hermann, l’opera uscì in una prima edizione relativamente economica in ottavo nel 1695, e in una seconda più pregevole edizione in quarto nel 1705 . Entrambe comprendono un centinaio di calcografie, su disegni in gran parte di mano dello stesso Hermann; per numerose specie, si tratta della prima immagine a stampa. Nonostante sia un lavoro diseguale (a causa della morte dell’autore, le piante sono trattate in modo variamente esteso e in alcuni casi l'illustrazione è priva di note d'accompagnamento) è di estremo interesse per la storia dell’introduzione delle piante orticole; tra di esse, come ho raccontato in questo post, le prime due orchidee tropicali coltivate in Europa. Ma è anche un documento in presa diretta della civiltà olandese del giardino nel secolo d’oro. Tra i giardini citati, oltre agli orti botanici di Leida e Amsterdam e a quelli principeschi di William e Mary (divenuti sovrani d’Inghilterra nel 1689, in seguito alla gloriosa rivoluzione), quelli di importanti uomini politici: il suo protettore Hieronymus van Beverningh, il segretario degli stati d’Olanda Simon van Beaumont, il pensionario di Haarlem Gaspar Fagel, il ciambellano Willem Bentinck (poi primo duca di Portland). Per questi uomini di potere, i giardini e il collezionismo di piante esotiche e rare avevano un preciso significato ideologico: come leggiamo in Den Nederlandtsen Hovenier , il popolare manuale di giardinaggio scritto da Jan van der Groen (circa 1635-1672), capo giardiniere dello statolder, la caduta di Adamo aveva reso imperfetta la natura, ma l’arte, la domesticazione e l’ordine potevano restituire la perfezione perduta e i giardini erano la prova materiale della riuscita dell’impresa. Il titolo del libro di Hermann, Paradisus batavus «paradiso olandese», si rifà esplicitamente a questa ideologia. Nel 1717, le note di campo scritte da Hermann a Ceylon furono pubblicate, sempre da Sherard, sotto il titolo Musaeum Zeylanicum. Ma per la storia della botanica sono molti più importanti gli erbari. Hermann aveva raccolto centinaia di esemplari sia per sé, sia per i suoi sponsor; al rientro da Ceylon, consegnò almeno un libro d’erbario a Beverningh e un altro a Jan Commelin, direttore dell'orto botanico di Amsterdan. Dopo la sua morte, la vedova, probabilmente per finanziare la stampa di Paradisus batavus, vendette il resto all’asta. Per cinquant’anni, se ne perse ogni traccia, finché nel 1744 giunsero nelle mani del farmacista reale danese August Günther cinque volumi, quattro d’erbario e uno di disegni. Günther li prestò a Linneo, che se ne servì sia per la sua unica pubblicazione sulla flora asiatica, Flora Zeylanica, sia per le piante singalesi di Species plantarum. Dopo diversi altri passaggi, il prezioso erbario fu acquistato da Joseph Banks e fa oggi parte delle collezioni del Natural History Museum di Londra. Il volume appartenuto a Commelin fu invece studiato dal botanico olandese Johannes Burman per il suo Thesaurus Zeylanicus. Deliziose (e misconoscite) Hermanniae Hermann era stimatissimo dai botanici della generazione immediatamente successiva: Boerhaave lo definì «incomparabile per la conoscenza delle piante», Johannes Burman lo chiamò «sommo lume dell’Università di Leida». Quanto a Linneo, che premise a Flora Zeylanica una biografia di Hermann così elogiativa da sconfinare nella agiografia, lo salutò «principe dei botanici», un titolo che di solito riservava a se stesso, e scrisse: «Non c’era al mondo un botanico pari a Hermann per i meriti e le scoperte» . Grande stima ne aveva anche Tournefort che gli dedicò il genere Hermannia , sulla base dell’unica specie allora nota (nome attuale Hermannia hyssopifolia), una delle acquisizioni sudafricane di Hermann; il genere fu poi fatto proprio da Linneo . Hermannia L. della famiglia Malvaceae è un grande genere soprattutto sudafricano, dunque perfetto per celebrare il primo esploratore della flora del Capo. A parte una specie australiana e pochissime specie distribuite tra Messico e zone adiacenti degli Stati Uniti, buona parte delle circa 160 specie sono africane, 81 delle quali endemiche del Sud Africa, soprattutto delle province del Capo occidentale e settentrionale. Il genere è molto vario, e si è adattato a un’altrettanto grande varietà di ambienti. Sono piante erbacee o piccoli arbusti, spesso striscianti. Le specie che vivono nel veld tendono a lignificare alla base e a formare un fusto legnoso sotterraneo, in grado di superare i periodi di siccità o anche gli incendi. Anche se sono poco utilizzate nei giardini, molte specie sono assai decorative grazie alle masse di fiori penduli a campana, spesso in delicati colori pastello. Ne troverete una piccola selezione nella scheda.
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Dopo Euricius e Valerius Cordus, un'altra coppia padre-figlio della Germania del Cinquecento: quella costituita dai due Joachim Camerarius, il Vecchio e il Giovane. Il primo in gioventù fu amico di Euricius, poi divenne una colonna dell'intellighenzia luterana e un notissimo filologo; il secondo studiò in Italia, divenne un medico conteso da principi e sovrani, il riformatore della medicina della sua città, l'autore di un noto testo sugli emblemi, a metà tra erudizione, filosofia morale e naturalismo. Per noi è soprattutto un creatore di giardini: il suo, ricchissimo di piante esotiche, e quelli che aiutò a realizzare o progettò per il langravio d'Assia e il vescovo di Eichstätt. Proprio come quest'ultimo esiste ormai solo nelle magnifiche figure di Hortus Eystettensis, così anche il giardino di Camerarius sopravvive nelle pagine di un libro e di un manoscritto. Auspice Plumier, Linneo gli dedicò il piccolo genere Cameraria. Un emblematico figlio d'arte Abbiamo incontrato Joachim Camerarius il Vecchio (1500-1574) a Erfurt nel 1520, quando, ventenne, aprì una sfortunata scuola latina insieme a Euricius Cordus. Dopo quell'infelice esordio, divenne un intellettuale di punta del Luteranesimo. Professore a Wittenberg, fu a fianco di Melantone che aiutò a scrivere la Confessione augustana; più tardi ne fu anche il primo biografo. Ebbe un ruolo importante nella riforma in senso protestante delle università di Tubinga (insieme a Fuchs) e di Lipsia, dove visse dal 1539 alla morte. Fu uno dei maggiori umanisti della sua generazione, autore di opere di vario argomento e di numerose traduzioni, nonché curatore di fondamentali edizioni critiche, la più importante delle quale è la prima edizione a stampa del testo greco del Tetrabiblos di Tolomeo. Suo figlio Joachim, che per distinguerlo dal padre è noto come Camerarius il Giovane (1534-1598), cresciuto in questa atmosfera intellettuale, poté giovarsi della fitta rete di contatti del padre, che includeva importanti umanisti e le maggiori personalità del mondo riformato. Dopo aver ricevuto un'ottima formazione classica a Wittenberg con Melantone e a Lipsia con il padre, si orientò verso la medicina. Il suo primo maestro fu Johann Crato von Krafftheim, medico cittadino a Breslavia, che si era laureato a Padova e gli consigliò di fare lo stesso; fu così che nel 1559 Joachim il Giovane partì per l’Italia. Per due anni seguì i corsi a Padova, poi si spostò a Bologna dove si laureò con Ulisse Aldrovandi, con il quale sarebbe rimasto in corrispondenza per tutta la vita. In Italia strinse preziosi legami con molti altri naturalisti, che gli sarebbero stati molto utili al suo ritorno in Germania. Infatti Camerarius il Giovane, oltre che un medico di notevole talento, era anche un umanista e un collezionista che non avrebbe potuto né scrivere le sue opere né arricchire le sue collezioni e il suo giardino senza il contributo di tanti amici e corrispondenti. Dopo la laurea nel 1562, viaggiò ancora per qualche mese in Italia quindi rientrò a Norimberga che sarebbe rimasta la sua residenza fino alla morte. Divenne medico cittadino; la sua competenza era tale che spesso veniva consultato da principi e sovrani. Fu anche molto impegnato nella riforma della medicina della sua città; nel 1571 propose al Consiglio cittadino di istituire un Collegium Medicum che ne regolasse la pratica: solo i medici laureati dovevano essere autorizzati a fare diagnosi e i farmacisti dovevano essere posti sotto il controllo dei medici. Il Collegium venne infine istituito nel 1592 e Camerarius ne fu il decano fino alla morte. Oltre a scrivere di argomenti medici, Camerarius era un intellettuale di vasti interessi, un appassionato collezionista di immagini, piante, minerali, fossili, oggetti naturali in genere. Alla morte di Gessner, di cui era amico, fu lui ad acquistarne i manoscritti e i disegni. Gli studi naturalistici, la competenza di filologo, il moralismo di matrice luterana e il fascino per le immagini si conciliano in Symbola et emblemata, un'opera in quattro libri (o centurie), ciascuno dei quali contiene cento emblemi. Essa si inquadra in un filone che ebbe ampio successo tra tardo Cinquecento e Seicento, quello dei libri di emblemi, ma se ne distingue perché Camerarius sceglie i suoi emblemi esclusivamente dal mondo naturale: le piante (I libro), i quadrupedi (II libro), gli uccelli e i volatili (III libro), gli animali acquatici (IV libro). Ognuno dei quattrocento emblemi ha una struttura quadripartita: sulla pagina di sinistra, l’emblema vero e proprio, un’immagine posta in una cornice circolare, simile a una medaglia; lo sormonta il motto, una frase sentenziosa contenente un insegnamento morale; al piede un epigramma in versi; sulla pagina di destra, un commento con riferimenti sia ad autori classici o alla Bibbia, sia alla letteratura naturalistica. Le immagini, dovute al pittore e incisore Hans Siebmacher e realizzate con la tecnica allora nuova della calcografia, sono assai attraenti e furono riutilizzate per secoli. Giardini veri (e filosofici), giardini dipinti Come molti naturalisti del tempo, Camerarius aveva vasti interessi, ma la botanica era il suo campo d'elezione: è stato notato che in Symbola et emblemata, i testi delle centurie sugli animali sono per lo più un collage della letteratura di riferimento, mentre nella centuria sulle piante si nota una profonda conoscenza diretta e sono frequenti le osservazioni di prima mano. Infatti, a partire dal 1569 Camerarius poteva studiarle nel suo giardino, dove accanto ai semplici c'erano moltissime piante esotiche; era considerato il più raffinato della Germania meridionale. A farci sapere che cosa vi coltivasse, provvide lo stesso Camerarius con la sua maggiore opera di botanica, Hortus Medicus et Philosophicus , che di quel giardino è almeno in parte il catalogo. Seguito da un opuscolo di Johann Thal sulla flora della regione dello Harz e illustrato da xilografie di Jost Amman e altri artisti, tra cui Joachim Jungermann (nipote di Camerarius), contiene una lista in ordine alfabetico di piante adatte alla coltivazione nei giardini tedeschi di cui vengono forniti i nomi, i sinonimi, la provenienza e note di coltivazione; lo stile è sintetico e le note erudite sono sporadiche, così come le eventuali proprietà officinali. Dalla medicina farmaceutica, l’interesse si va spostando verso le piante in sé, come sottolinea il titolo: hortus medicus sì, ma anche philosophicus, ovvero scientifico: è ora che le piante, da ingrediente delle ricette dei medici, diventino oggetto di studio dei naturalisti. Ci sono piante native, magari alpine, il cui interesse estetico è emerso dai viaggi dei primi esploratori della flora locale, come Valerius Cordus e Gessner, ma moltissime sono esotiche, soprattutto provenienti dall’Italia e dal Mediterraneo orientale. Alcune delle specie che Camerarius coltivava nel suo giardino erano souvenir dei suoi viaggi in Italia come il “bellissimo Antirrhinum dai fiori gialli che cresce spontaneo tra Savona e Genova" . Molte le acquistava dai mercanti di Norimberga che si rifornivano soprattutto ad Anversa, la porta europea delle piante provenienti dalle Indie orientali e occidentali. Ma moltissime le aveva avute da altri botanici e appassionati: il fornitore più assiduo probabilmente era Carolus Clusius, che in quegli anni era a Vienna ed aveva accesso alle specie provenienti dall’Impero ottomano; ma le piante del Levante gli arrivavano anche dai contatti italiani: Aldrovandi, i prefetti di Padova Guilandino e Cortuso, il farmacista Calzolari, i botanici viaggiatori Prospero Alpini e Giuseppe Casabona, prefetto dell'orto di Firenze. Nel 1568 il langravio Gugliemo IV di Assia-Kassel fece allestire uno spettacolare giardino nell'isola di Fulda, ai piedi del suo castello di Kassel. Per selezionare le piante più adatte, si avvalse della consulenza di Camerarius, che gli mise a disposizione i suoi contatti e aiutò il giardiniere capo, che faceva continuamente la spola tra Kassel e Norimberga, a procurarsi piante e elementi decorativi presso i mercanti della città. Era considerato il massimo esperto di giardinaggio della Germania, era un uomo colto e raffinato abituato a frequentare principi e corti; è dunque logico che il vescovo Johann Konrad von Gemmingen abbia pensato a lui quando decise di creare un giardino senza pari a Eichstätt. Il fatto che fosse luterano, evidentemente, non era un ostacolo. Tuttavia Camerarius morì quasi subito e il compito, come ho raccontato in questo post, passò al meno colto ma molto intraprendente Basilius Besler. Ci sono però legami molto forti tra l'Hortus Eystettensis (inteso sia come giardino sia come libro) e il giardino dello stesso Camerarius, Non solo talee, bulbi, barbatelle e semi passarono da un giardino all'altro, ma il vecchio medico e botanico anticipò il progetto del vescovo di far ritrarre dal vero le piante di Eichstätt facendo eseguire uno splendido florilegio manoscritto che documenta le più belle e rare specie del suo giardino. Mai pubblicato, il Camerarius Florilegium si credeva perduto finché venne riscoperto all'inizio del secolo e messo all'asta da Christie nel 2002. Ad aggiudicarselo è stata la biblioteca di Erlangen. È una spettacolare opera d’arte che ritrae 473 specie coltivate, indigene o esotiche, per lo più a grandezza naturale, disposte secondo la successione delle stagioni. Alcune sono collocate in vasi, altre affiancate sulla stessa pagina in una composizione armonica, che anticipa, appunto, lo stile di Hortus Eystattensis. I disegni, allo stesso tempo accurati e di grande qualità estetica, non sono firmati; è stato fatto il nome di Joachim Jungermann, il nipote di Camerarius, che aveva eseguito alcuni dei disegni di Hortus medicus et philosphicus. L'esotica (e poco nota) Cameraria Riprendendo un suggerimento di Plumier, in Species Plantarum Linneo ha voluto ricordare Camerarius con il genere Cameraria. Appartenente alla famiglia delle Apocynaceae, è un piccolo genere di appena sette specie, quattro delle quali endemiche di Cuba, due di Haiti e una sola presente anche nell'America continentale, in una stretta fascia tra Messico meridionale e Guatemala. Come molte rappresentanti di questa famiglia, sono piante attraenti, ma tossiche. Sono piccoli alberi o arbusti con foglie intere, lucide, e fiori di piccole dimensioni, bianchi, con tubo corollino a imbuto e cinque lobi a stella. La specie più nota e diffusa è C. latifolia, un elegante alberello con fiori bianchi, che secerne un lattice bianco tossico utilizzato dagli indigeni per avvelenare le frecce. Tuttavia la radice e la corteccia hanno diversi usi officinali. Un elenco delle specie con la distribuzione nella scheda. A Santa Maria dell'Anima, la chiesa della nazione tedesca a Roma, un tempo si poteva leggere la commovente epigrafe funebre di un giovane rapito agli amici da una febbre crudele; era di carattere gentile ed amabile; pieno di talento, conosceva le erbe e sapeva svelare i segreti della natura a quelli più vecchi di lui; non contento di aver esplorato la Germania, era venuto in Italia spinto dalla sete di conoscenza. Ma la natura matrigna, che non ammette che si carpiscano i suoi segreti, lo spazzò via, a soli ventinove anni. Quel "giovane meraviglioso" era il botanico tedesco Valerius Cordus, morto a Roma l'ultima settimana di settembre 1544 martire del suo amore per il sapere, il primo di una lunghissima serie di naturalisti periti per la scienza. Cresciuto tra le erbe fin dalla culla, come ricorda Plumier dedicandogli il genere Cordia, se il destino gli avesse concesso ancora qualche anno forse avrebbe cambiato la storia della botanica. Talis pater, talis filius Intorno al 1515, Heinrich Ritze (1485-1535) viveva nel villaggio di Simsthausen dove lavorava come cancelliere della vedova del langravio; fare lo scrivano non era ciò che sognava da ragazzo, quando frequentava la scuola latina di Marburg e i circoli umanistici dell'Assia. Poi si era iscritto all'università e aveva cominciato a farsi conoscere per i suoi versi in latino; aveva persino trovato uno splendido pseudonimo: Euricius Cordus, il bravo Enrichetto nato tardi (era l'ultimo di tredici figli). Ma mancavano i soldi per continuare gli studi; era stato costretto a tornare al paesello, si era trovato un lavoro, e a poco più di vent'anni si era sposato. Forse si sarebbe rassegnato, ma non voleva questo destino per i suoi figli, che intanto si stavano moltiplicando (ne ebbe in tutto otto). A loro voleva dare altre opportunità, e seguire di persona la loro educazione. Fu così che a quasi trent'anni Euricius Cordus tornò sui banchi dell'università di Erfurt e si laureò in lingue antiche e filologia. Insieme a due amici, il poeta Eobanus Hessus (che in realtà si chiamava Koch) e Joachim Camerarius il vecchio (che invece si chiamava Kammermeister) nel 1520 aprì una scuola latina a Erfurt. Non potevano scegliere un momento peggiore, con il paese scosso dalla Riforma luterana, alla quale tra l'altro tutti e tre avevano aderito con entusiasmo. La scuola chiuse presto i battenti e Euricius, per mantenere la famiglia, decise di diventare medico. Grazie a uno sponsor, partì per l'Italia e si laureò nella prestigiosa università di Ferrara, dove fece in tempo ad essere uno degli ultimi allievi del medico umanista Niccolò Leoniceno, all'epoca ultranovantenne. Dal suo maestro imparò soprattutto due cose: leggere gli antichi con spirito critico e studiare le piante dal vivo, non solo sui libri. Dopo aver lavorato per qualche tempo come medico cittadino a Braunschweig, nel 1527 il langravio Filippo di Assia lo chiamò a insegnare medicina a Marburg, nella prima università riformata. Qui Euricius divenne l'idolo degli studenti e lo zimbello dei suoi colleghi: che razza di professore era, uno che invece di spiegare Dioscoride e Galeno portava i suoi allievi a scarpinare in campagna a cercare piante nei boschi e nei fossi? Cordus, che era famoso per la ferocia dei suoi epigrammi, rispondeva letteralmente per le rime, finché i suoi nemici la ebbero vinta e lo espulsero dal Senato accademico. Dopo sette anni di insegnamento, fu costretto a lasciare l'università e trasferirsi a Brema, di nuovo come medico cittadino; qui morì un anno dopo, ad appena 49 anni. Una testimonianza diretta del suo metodo di insegnamento e del suo approccio alla botanica è la sua unica opera sulle piante, Botanologicon (ovvero "Dialogo sulle erbe"), sotto forma di dialogo tra lo stesso Cordus e quattro suoi ex allievi dei tempi di Erfurt. Insieme ai suoi ospiti visitiamo il piccolo orto dei semplici che il medico aveva creato accanto alla sua casa, e poi partecipiamo a un'escursione botanica per raggiungere il più ricco giardino che egli aveva allestito fuori città, una specie di orto botanico ante litteram. Per identificare le piante, uno degli ospiti ha portato due libri: Materia medica di Dioscoride e l'ultima novità editoriale, le prime due parti di Herbarum novae eicones di Brunfels. Prima a casa, dove fanno colazione, poi in giardino, quindi lungo il cammino, i cinque discutono dell'argomento preferito dei botanici del Rinascimento: la corretta identificazione delle piante di Dioscoride. Cordus è un grande filologo (e il più importante poeta satirico del Rinascimento tedesco), ma la sua conoscenza delle piante non è libresca: deriva dalla consuetudine quotidiana e amorevole. E' stato in Italia, e, a differenza di Brunfels, gli è chiaro che le piante che crescono in Germania non sono le stesse dei paesi mediterranei e non ha senso cercare di identificarle a forza con le piante di Dioscoride. Tanto meno bisogna fidarsi delle etichette dei vasi dei farmacisti, che spacciano tutt'altro sotto i nomi delle piante degli antichi. Purtroppo il suo libro, un dialogo dotto in latino, senza figure, non è mai diventato un bestseller come gli erbari illustrati di Brunfels e Fuchs; Cordus non è mai entrato nel canone dei "padri tedeschi della botanica"; ma oltre a questo piccolo libro, ha dato alla botanica un altro lascito: suo figlio Valerius, che fa capolino in qualche riga del Botanologicon. All'epoca ha quindici o sedici anni e suo padre lo descrive come «un ragazzo diligente e uno studioso osservatore». Fin da piccolissimo, ha dimostrato un ingegno precoce e, come dirà Plumier, è stato allevato tra le erbe fin dalla culla. E' il migliore allievo di Euricius che gli ha insegnato a padroneggiare perfettamente il latino e il greco (tanto che consegue il baccalaureato a sedici anni) ma soprattutto ad amare, studiare, osservare le piante. Un giovane geniale e una morte tragica Quando il padre muore, Valerius ha diciannove anni. Va a vivere a Lipsia da suo zio Johannes Ralla (uno degli interlocutori del Botanologicon); studia all'università, ma contemporaneamente lavora nella farmacia di famiglia, e impara tutto quello che c'è da imparare sulla preparazione dei farmaci e anche sulla chimica. Su suggerimento dello zio, scrive un prontuario delle ricette in uso nelle farmacie: per Valerius, è solo un passatempo, un'esercitazione, senza nulla di originale, ma suo zio lo stima tanto che attraverso alcuni amici lo fa pervenire a Norimberga, dove avrà l'onore di essere adottato come farmacopea ufficiale della città, la prima al di là delle Alpi. Nel 1539 Valerius si trasferisce a Witteberg, per completare gli studi e laurearsi in medicina. Tra i suoi insegnanti, c'è anche Filippo Melantone. Contemporaneamente, tiene lezioni in cui commenta Dioscoride; sono molto brillanti e attirano numerosi studenti, anche dall'estero. Uno di loro è il francese Pierre Belon (1517-1564), che ha appena due anni in meno e diventa un amico. Molti anni dopo la morte di Cordus, sulla base degli appunti di qualche allievo, Gessner pubblicherà questi Commentari insieme alla Historia stirpium. Il giovane è assetato di sapere e non tralascia la chimica, tanto che nel 1540 è il primo a sintetizzare l'etere. Si interessa di mineralogia e geologia, ma la sua vera passione sono le piante. Nei momenti di sospensione dell'attività didattica, da solo o in compagnia di amici-allievi come Belon, perlustra la Germania centrale e meridionale, per raccogliere campioni di minerali ma soprattutto per studiare le piante dal vivo, nel loro ambiente naturale. Abbiamo visto che lo faceva anche Bock, ma il suo era un approccio da autodidatta, per così dire d'istinto. Invece Valerius ha una conoscenza perfetta delle lingue classiche, conosce a memoria i testi di Dioscoride e soci, ed è dotato di una strabiliante memoria fotografica: gli basta aver letto la descrizione di una pianta per riconoscerla la prima volta che la vede. Ha una mente filosofica e fin da bambino è abituato a osservare, confrontare, dedurre. Non è interessato solo alle virtù medicinali delle erbe, ma alle piante di per sé e, come avrebbe detto Teofrasto, è alla ricerca di un metodo "proprio" per studiarle. Entro il 1542, ha messo insieme un manoscritto in quattro libri, suddivisi in 446 capitoli, ciascuno dei quali è dedicato a una specie. Nel 1544 si laurea in medicina e parte per l'Italia (dove era già stato due anni prima per seguire corsi a Padova e Ferrara), deciso ad estendere le sue ricerche alla penisola, per verificare se le piante descritte da Dioscoride trovano una più stretta corrispondenza nella flora mediterranea. Vuole anche incontrare i botanici italiani e imparare dalle loro esperienze all'avanguardia. Viaggia con uno dei suoi professori di Wittenberg, il medico e astronomo Hyeronimus Schreiber, e due allievi francesi, uno dei quali molto probabilmente va identificato in Pierre Belon. Visitano molte città, tra cui Padova, Venezia, Bologna e Firenze; a Bologna si trattengono a lungo, per fare visita a Luca Ghini. Verso la metà di settembre sono a Siena, da dove intendono raggiungere Roma attraversando la Maremma. E' una zona notoriamente insalubre, infestata dalla malaria, ma anche ricca di piante particolari, dunque irresistibile per Valerius che si addentra dove non dovrebbe. E' così che molto probabilmente contrae la malaria; forse è già ammalato quando viene ferito a una gamba dal calcio di un cavallo. E' una brutta ferita e la febbre sale rapidamente; i suoi compagni con grande fatica riescono a trasportarlo a Roma, dove sono accolti da altri amici della comunità tedesca. Valerius sembra riprendersi, tanto che Schreiber e i due francesi decidono di proseguire per Napoli; ma quando rientrano a Roma, scoprono che il loro amico è morto. Dopo una battaglia con le autorità pontificie (come luterano eretico il suo cadavere rischia di essere gettato nel Tevere) possono infine farlo seppellire a Santa Maria dell'Anima, la chiesa della nazione tedesca. Il loro strazio e la consapevolezza di quanto sua irreparabile per la scienza la perdita di quella giovane vita traspare dalla lapide funeraria, che purtroppo non esiste più ma ci è stata tramandata da un viaggiatore secentesco: "Per Valerius Cordus di Simsthausen in Assia, figlio di Euricio, medico e poeta. Con il suo carattere innocente, il suo talento e la sua straordinaria gentilezza si guadagnò l'ammirazione di tutti i medici. Lui giovane spiegava a quelli più vecchi i misteri della natura e le virtù delle piante. Dopo aver vagato per la Germania, poiché la sua sete di conoscenza non poteva essere soddisfatta, venne in Italia dove fu tenuto in molto onore, ma era appena arrivato a Roma quando fu spazzato via da una febbre crudele al culmine dei 29 anni, mentre le lacrime degli amici scorrevano per l'insostituibile perdita per la scienza". Seguono alcuni distici che chiamano in causa la natura matrigna gelosa dei suoi segreti e il crudele dio Apollo. Una sintesi della breve vita di colui che possiamo considerare il primo martire della botanica nella sezione biografie. Un'opera pionieristica e la nascita della fitografia Che la perdita per la scienza fosse gravissima è innegabile. Per fortuna, benché giovanissimo, Valerius aveva già scritto molto, ma le sue opere (ad eccezione di Dispensatorium pharmacorum omnium, la farmacopea scritta per Norimberga) vennero pubblicate più di vent'anni dopo la sua morte. Il manoscritto di Historia stirpium venne inviato a Gessner, che ne capì immediatamente il valore e si diede da fare perché fosse stampato; ma purtroppo accettò la proposta dell'editore Rihelius, che deteneva le tavole dell'erbario di Bock, di accompagnare il testo con circa 250 illustrazioni; dato che molte piante non erano mai state descritte in precedenze e Gessner non le conosceva, egli commise molti errori nell'associare le figure al testo; errori che più tardi vennero ingiustamente attributi all'autore anziché al curatore. Nonostante ciò, l'importanza dell'opera di Cordus non sfuggì a grandi botanici come Tournefort e Haller: per il primo egli fu "il primo a eccellere nella descrizione delle piante"; per il secondo fu "il primo a rompere con la dipendenza dalle povere descrizioni degli antichi e a descrivere nuovamente le piante dal vero". Secondo il botanico statunitense Spargue, che ne fu in un certo senso lo scopritore dopo secoli di oblio, "supera di gran lunga Bock per l'esattezza e la natura dettagliata delle sue descrizioni, che ne fanno il vero padre della fitografia". In effetti Cordus, invece di prendere a modello le descrizioni di Dioscoride, come avevano fatto tutti i botanici prima di lui, inventò un metodo del tutto innovativo, che non teorizzò in modo esplicito, ma che è possibile ricavare dalle sue descrizioni. In primo luogo, egli presenta ciascuna pianta dal punto di vista di un osservatore che abbia davanti a sé non un campione di erbario, ma una pianta viva, un esemplare maturo, o almeno nel momento della fioritura; e torna ad osservarla nel momento della fruttificazione, non trascurando mai frutti e semi. La descrizione inizia con la parte più cospicua, più evidente per l'osservatore: per le piante erbacee, prima le foglie, poi il fusto; per le piante con fusto significativo, prima il fusto poi le foglie. Il terzo elemento è il fiore, di cui indica la stagione di fioritura e descrive con precisione analitica calice e corolla. Passa poi al frutto e ai semi, descritti sempre in modo molto preciso, annotando ad esempio il numero di celle, le linee di deiscenza, il numero e la forma dei semi. L'ultimo elemento è quasi sempre la radice, che l'osservatore non vede senza estrarre la pianta dal terreno; è il contrario di quanto facevano gli antichi che partivano proprio da quella, di solito la parte della pianta più importante dal punto di vista erboristico. Per le piante erbacee, se gli è noto, non manca di indicare se sono perenni, biennali o annuali; inoltre aggiunge elementi come il colore, il gusto, l'odore (secondo suo padre, una caratteristica essenziale per il riconoscimento). Benché Valerius avesse lavorato per anni in una farmacia e fosse un esperto di farmaci, le informazioni sulle proprietà officinali sono ridotte al minimo: è chiara la sua intenzione di emancipare la botanica descrittiva dagli usi pratici. Lo schema è applicato sia alle piante nuove (in tutto 66) sia a quelle descritte dagli antichi, di cui non copia mai le descrizioni, come aveva fatto invece lo stesso Bock. Cordus dedicò particolare cura all'osservazione e alla descrizione delle infiorescenze; fu il primo dopo Teofrasto a distinguere le infiorescenze centrifughe (con fioritura dal centro verso l'esterno) e centripete (con fioritura dall'esterno verso il centro), fornendo una descrizione molto precisa delle complesse infiorescenze delle umbellifere. Fu il primo a chiamare corimbo l'infiorescenza di diverse comuni composite, e descrisse con precisione le brattee (anche se il nome non esisteva ancora). Esaminò e descrisse una dozzina di felci (tra l'altro, è il primo a descrivere Matteuccia struthiopteris). A proposito della felce maschio Dryopteris filix-mas scrive: "Cresce copiosamente sulle rocce umide, anche se non produce né fusti, né fiori, né semi. Ma si riproduce da sola per mezzo della polvere che si sviluppa sulla pagina inferiore delle foglie, come tutte le felci". Egli è infatti il primo a capire a grandi linee il meccanismo di riproduzione delle felci e che quella "polvere" è qualcosa di diverso dai semi. In Historia stirpium le piante sono distinte in erbacee (I e II libro), arbustive e arboree (III e IV libro. Dato che nel primo libro sono esaminate "Diverse erbe" e nel secondo "Piante la cui storia è stata trasmessa in modo inesatto dagli antichi, o sono state omesse del tutto", ne consegue che specie, che oggi assegneremmo alla stessa famiglia, o anche allo stesso genere, si trovano separate. Ciò nonostante Greene, che ha studiato molto attentamente i raggruppamenti interni dell'opera di Cordus, dimostra che egli aveva individuato, anche se non esposto in modo esplicito, diversi gruppi naturali, basati fondamentalmente sulle strutture del fiore. E' una grande novità che anticipa di oltre un secolo gli sviluppi della botanica; Cesalpino, che scrive parecchi decenni dopo ed è l'autore del primo tentativo di classificazione delle piante, ignorerà quasi del tutto i fiori, e si baserà invece sui frutti e sui semi (il cui legame con i fiori di cui sono la trasformazione gli era molto meno chiaro che a Cordus); e infatti Greene conclude il suo esame della "tassonomia implicita" di Cordus con queste parole: "Cesalpino, della fine del XVI secolo, è considerato il fondatore della Botanica sistematica. Ma se Valerius Cordus avesse potuto vivere altri ventinove anni, è facile pensare che il grande italiano avrebbe perso i suoi allori". Cordia, un genere mille usi Come molti botanici del Rinascimento, anche Valerius Cordus deve il suo ingresso nella nomenclatura botanica a padre Plumier, che come sempre sa trovare le parole giuste: "Valerius Cordus di Simsthausen in Assia nacque dal medico e famosissimo poeta Euricius Cordus. Fu sommo commentatore di Dioscoride e felicissimo indagatore di piante precedentemente sconosciute. Fu infiammato dall'esempio di tanto padre, che fin dalla culla volle educarlo tra erbe e fiori". Poi validato da Linneo, il genere Cordia, della famiglia Boraginaceae, comprende circa 250 specie di alberi e arbusti distribuiti nella fascia tropicale e subtropicale di America, Africa, Asia e Oceania. E' presente in vari ambienti, con molte specie notevoli per diverse ragioni. Alcune specie arboree trovano impiego come alberi da legname; quello più pregiato, detto bocote, ricavato da diverse specie messicane e centro americane, è caratterizzato da una piacevole trama zebrata e da proprietà acustiche che lo fanno apprezzare per la costruzione di strumenti musicali; impieghi simili ha il legname di C. dodecandra, noto come ziricote. Molte specie producono frutti eduli, consumati crudi, cotti o come sottaceti, come è il caso di C. dichotoma, una specie asiatica e australiana di ampia diffusione i cui frutti immaturi sottaceto sono una specialità di Taiwan. Il loro nocciolo ha proprietà medicinali, come varie parti di altre specie di questo versatile genere. Non mancano neppure gli usi ornamentali: sono piante dal bel portamento ordinato con vistose fioriture, anche se purtroppo adatte solo ai climi più miti. Forse la più bella, o per lo meno quella che più si fa notare, è C. sebestena, un alberello originario di un'area che va dalla Florida al Centro America, caratterizzato da rutilanti fiori rosso aranciato. Di grande impatto estetico anche due arbusti con fiori bianchi provenienti dagli Stati Uniti meridionali, C. boissieri e C. parviflora, notevoli per la resistenza alla siccità e la prolungata fioritura. Qualche approfondimento nella scheda. Come Brunfels, anche Hieronymus Bock, il secondo "padre della botanica tedesca", fu un fervente sostenitore della Riforma, divenendo anche predicatore e pastore. Ma la sua vera vocazione erano le piante: dal tempo di Teofrasto, è stato il primo a studiarle dal vivo, a provare a classificarle, a descrivere non ciò che ne dicevano i libri ma ciò che vedeva con i suoi occhi. Con i suoi estesi viaggi nella Germania meridionale, nelle Ardenne e in Svizzera, raccolse molte piante native mai descritte in precedenza; il suo New Kreütter Büch, scritto su sollecitazione di Brunfels, è il più innovativo degli erbari tedeschi del primo Cinquecento, grazie alle eccellenti descrizioni e all'abbozzo di una classificazione naturale. Pubblicato per la prima volta nel 1539 senza figure, fu ripubblicato nel 1546 con le illustrazioni del valente pittore David Kandel. Nel 1552 seguì la prima edizione latina con la prefazione di Gessner. E mentre la sua fama cresceva, Bock assumeva nuovi nomi: dapprima, modestamente, si firmò Hieronymus Herbarius, poi con il suo nome, infine con lo pseudonimo classicheggiante Hieronimus Tragus. Nello stemma della sua famiglia c'era un'ortica; chissà se fu questa la ragione che spinse Plumier a dedicargli l'urticante genere Tragia? Una vocazione botanica Nel 1533 Hieronymus Bock, che all'epoca viveva a Hornbach in Palatinato, ricevette una visita inaspettata. Si trattava di Otto Brunfels che, avendo sentito parlare dei suoi viaggi e dei suoi studi sulle piante, si era sobbarcato il viaggio da Strasburgo per vedere il suo giardino e le sue collezioni. Egli capì subito che quel patrimonio di conoscenze andava messo a disposizione di tutti e sollecitò Bock a scrivere un erbario in lingua tedesca. Secondo quanto racconta lo stesso Bock nella prefazione all'edizione latina del suo libro, è questa l'origine di New Kreütter Büch. Forse senza l'incoraggiamento del più celebre collega, che pubblicò anche un suo saggio in appendice al secondo volume di Herbarum vivae eicones, le due ricerche sarebbero rimaste una passione da praticare nel tempo libero e non si sarebbero trasformate in una delle opere più importanti della botanica rinascimentale. Sappiamo molto poco della giovinezza e delle formazione di Bock; nato in Palatinato intorno al 1498, fu educato in un monastero, dove i genitori avrebbero voluto prendesse i voti, ma egli riuscì a convincerli di non avere alcuna vocazione. Nel 1519 risulta immatricolato all'Università di Heidelberg, ma con ogni probabilità non completò gli studi; è possibile che abbia assistito alla cosiddetta "Disputa di Heidelberg", durante la quale Lutero espose le sue tesi teologiche, e che in questa occasione abbia aderito alla Riforma. Sicuramente nel 1522 iniziò a lavorare come rettore della scuola di Zweibrücken, la residenza del conte palatino Luigi II di cui divenne consigliere e medico personale (benché non avesse mai conseguito la laurea). Il conte gli affidò anche la direzione del suo giardino; fu probabilmente in questo modo che Bock incominciò ad interessarsi di piante. Durante i nove anni trascorsi a Zweibrücken, prese a studiarle in natura facendosi una fama come "herbarius", esperto di erbe. Nel 1532 Luigi II morì, lasciando un erede bambino; il potere passò a Federico II che all'epoca era vicino al cattolicesimo o, per lo meno, non desiderava inimicarsi l'imperatore Carlo V; alla sua corte non c'era posto per un fervente luterano come Bock. Intanto il protestantesimo aveva trovato terreno fertile nel monastero benedettino di Hornbach; l'abate Johann Kindhäuser, vicino ai riformati, offrì a Bock un beneficio come canonico di St Fabian, praticamente una sinecura per trattenerlo in Palatinato. Come predicatore laico e maestro, gli fu concesso di abitare con la sua numerosa famiglia (aveva dieci figli) nella Kooperatorhäusl, la residenza dei collaboratori esterni. Fu poco dopo essersi trasferito qui che Bock ricevette la visita di Brunfels da cui abbiamo preso le mosse. Nel 1536 Hornbach passò ufficialmente alla Riforma; i monaci lasciarono l'abbazia e Bock divenne il parroco luterano della chiesa cittadina, incarico confermato nel 1539 dal primo sinodo ufficiale della Chiesa regionale del Palatinato. Gli anni trascorsi in questa cittadina, posta al confine tra il Palatinato, l'Alsazia e la Svizzera, furono molto produttivi per Hieronymus herbarius (così amava firmarsi all'epoca) che ne approfittò per esplorare la flora della Germania meridionale, delle Ardenne e delle Alpi svizzere; erano viaggi faticosi e difficili, come racconta egli stesso nella prefazione del suo libro, duranti i quali, per non dare nell'occhio, si muoveva travestito da contadino; portava con sé un libretto su cui annotare le sue osservazioni e un cesto per riporre le piante da trapiantare nel suo giardino per studiarle con più agio. Fu dunque sulla base di un intenso lavoro sul campo che poté completare il New Kreütter Büch, pubblicato a Strasburgo nel 1539. Nel 1548, con l'Interim di Augusta, si aprì una fase di incertezza particolarmente acuta nel Palatinato, con il ritorno al cattolicesimo di diversi monasteri; tra questi l'abbazia di Hornbach, dove l'amico di Bock Kindhäuser dovette lasciare il posto al cattolico Johann Bonn von Wachenheim, che obbligò i canonici luterani a sottomettersi o a rinunciare al beneficio. Bock lasciò Hornbach e trovò un nuovo protettore in Filippo II di Saarbrücken che lo volle come medico personale; da Saarbrücken Bock inviò ai suoi ex-parrocchiani una lettera dai toni appassionati che è il suo unico scritto religioso rimastoci. Tuttavia già nel 1552, in seguito al trattato di Passau, poté ritornare a Hornbach come pastore e predicatore luterano. Qui morì poco più di un anno dopo, nel febbraio 1554. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Un libro di erbe rivoluzionario Tre circostanze contribuirono a fare del New Kreütter Büch un libro assai diverso, e anche molto più innovativo, rispetto sia a Herbarum novae eicones di Brunfels sia a De historia stirpium di Fuchs. In primo luogo, rispetto ai due colleghi, Bock era molto meno colto: abbiamo visto che si era iscritto all'università, ma non aveva completato gli studi. La sua formazione era quella ricevuta in convento e anche la sua sapienza medica era dovuta più alla pratica che allo studio libresco; dunque, rispetto agli altri due "padri" sentiva molto meno l'autorità (e l'influsso) dei classici; probabilmente, anche la sua padronanza del latino era modesta. Così scelse di scrivere in tedesco, anzi in dialetto alto tedesco (il suo libro è considerato anche un importante documento linguistico): il suo pubblico ideale non erano i dotti, ma le persone comuni. E' una scelta perfettamente coerente con l'adesione alla Riforma: sono gli stessi anni in cui Lutero traduce la Bibbia in tedesco e vengono aperte scuole popolari (una delle prime è quella di Brunfels a Strasburgo) per diffondere l'alfabetizzazione e permettere a tutti di accedere direttamente ai testi sacri. In secondo luogo, il suo interesse per le piante non si limitava alle specie officinali: amava e voleva conoscere il maggior numero possibile di piante. Mentre Brunfels studiava la flora tedesca convinto di ritrovare in essa le piante degli antichi, e pubblicò molto malvolentieri le indegne plantae nudae introdotte dal suo illustratore, Bock era consapevole che si trattava di una flora diversa, e voleva esplorarla e farla conoscere ai suoi conterranei, convinto che il buon Dio facesse crescere in ogni paese quanto era necessario per la sopravvivenza e la salute, senza bisogno di importare costose droghe straniere. In terzo luogo, Bock era una persona di mezzi limitati, talvolta precarie, con molti figli a carico, e quando scrisse il Kreütter Büch non poteva contare né su un protettore né su un editore disposto ad assumersi il rischio: una costosa edizione illustrata non era neppure pensabile. Dunque le sue descrizioni dovevano essere così precise da bastare al riconoscimento senza l'ausilio delle figure; d'altra parte, questa scelta corrispondeva a un convincimento profondo: "Chi ha un giardino e un giardiniere, non ha bisogno di illustrazioni". Come avevano fatto gli antichi, nel suo nuovo erbario Bock evita di descrivere le piante più comuni, quelle più coltivate nei giardini e nei campi: sono note a tutti e per farle riconoscere basta il nome. Dedica invece la massima cura a ritrarre con le parole quelle selvatiche o di più recente introduzione. Per la prima volta nella storia, queste descrizioni sono frutto di un'attenta osservazione dal vivo, che spesso segue la vita della pianta in tutte le sue fasi; ecco come viene descritto il verbasco (una new entry assoluta nella letteratura botanica): "Una cosa veramente notevole di questa pianta è la sua radice lunga, spessa e corta, di durezza legnosa. Le sue foglie, specialmente le prime, spuntano vicino al suolo, sono piuttosto larghe e lunghe, di aspetto biancastro e lanoso, più o meno come quelle dell'helenium [Inula helenium]. Soltanto il secondo anno spunta lo stelo, pieno di un midollo bianco all'interno, come quello del sambuco, e talvolta raggiunge l'altezza di un uomo, rivestito di foglie che gradualmente diventano più piccole e più strette man mano che si avvicinano alla cima. I fiori, gialli, lanosi, e dolcemente profumati, hanno cinque foglie [si tratta dei petali] e coprono completamente lo stelo da dove nasce alla cima; quando cadono ciascuno di essi è seguito da un globo lanoso pieno di semi non dissimili da quelli del papavero". Come si vede, la descrizione è mirabilmente precisa, ma prolissa, in mancanza di una terminologia tutta da inventare, e deve continuamente ricorrere a paragoni con piante più note (o, almeno, già descritte). Dall'osservazione diretta delle piante discende anche la scelta di respingere l'ordine alfabetico, artificiale e fonte di confusione, per cercare di disporre le piante in un ordine "naturale": "Nel descrivere le piante, ho cercato il più possibile di tenerle insieme nel modo in cui la natura sembra collegarle per la somiglianza di forma". E' il primo emergere del concetto di classificazione; Bock segue la tradizionale tripartizione delle piante in alberi, arbusti ed erbe, ma all'interno di ciascuna categoria cerca di raggruppare le piante in base alla somiglianza di forma; è il primo a individuare le labiate, le crucifere e le composite. Nella prima edizione del New Kreütter Büch egli descrive 478 specie, quasi tutte native della Germania o introdotte da lungo tempo; nella prefazione vanta di averle viste o sperimentate tutte di persona. La prima in assoluto è l'ortica: una pianta umile, a cui Bock è legato perché compare nello stemma della sua famiglia; ma è anche una pianta pura, aggiunge spiritosamente: dopo aver provveduto alle necessità naturali, nessuno sporca le sue foglie. Seguono le labiate (la somiglianza è data dal fusto squadrato e dalla disposizione delle foglie; del resto, nella tassonomia popolare Lamium album è accostato all'ortica con nomi come ortica bianca o falsa ortica), quindi le altre piante erbacee; poi gli arbusti; infine gli alberi. Il successo del libro fu buono, ma limitato dalla mancanza di illustrazioni; solo nel 1546 uscì una seconda edizione accresciuta e illustrata con 568 incisioni del valente pittore David Kandel. Nel 1551 fu seguita dall'edizione latina (la traduzione è di David Kyber) sotto il titolo De stirpium […] commentariorum libri tres, con la prefazione di Conrad Gessner; contiene 806 piante, ancora in gran parte native della Germania; il capitolo sulla vite è famoso perché contiene la prima menzione del Riesling. Abbiamo già visto che Bock aveva pubblicato i suoi primi contributi sotto lo pseudonimo Hieronymus herbarius; per il Kreütter Büch usa il suo vero nome, per De stirpium lo nobilita nel classicheggiante Hieronymus Tragus, dal gr. tragos, "caprone", l'equivalente del tedesco Bock. Per concludere, lascio la parola a Frank J. Anderson che di Bock ha scritto: "Era un dilettante, largamente un autodidatta; eppure le sue acquisizione hanno avvicinato lo studio delle piante alla scienza più di quanto avesse fatto chiunque altro dai tempi di Teofrasto". Euphorbiaceae... urticanti A celebrare il più grande, ma anche il più modesto e defilato dei tre padri della botanica tedesca non ci sono generi lussureggianti come Fuchsia o Brunfelsia; chissà perché padre Plumier ha voluto onorarlo con un genere di piante che non si distinguono per la bellezza, ma piuttosto per essere armate di dolorosissimi peli urticanti. Sarà un'allusione indiretta alla scelta controcorrente di Bock di far iniziare il suo erbario con l'umile ma pura ortica, emblema della sua famiglia ma forse anche simbolo della sua personalità di uomo schivo e alieno dai compromessi? Il genere Tragia, della famiglia Euphorbiaceae, creato appunto da Plumier e validato da Linneo, è distribuito nella fascia tropicale e temperata delle due Americhe, in Asia, nella penisola arabica, in India e nell'Australia settentrionale, soprattutto in ambienti aridi o ai margini delle foreste asciutte. Comprende circa 150 specie, di aspetto piuttosto variabile; sono suffrutici o erbe erette, ma soprattutto liane volubili, con fusti, foglie e frutti coperti di peli urticanti. I fiori, raccolti in racemi o tirsi, hanno sepali giallo-verdastri e sono privi di corolla; quelli femminili sono seguiti da capsule pelose con tre loculi. Insomma, piante da trattare decisamente... con i guanti, visto che il contatto con il loro peli è considerato particolarmente doloroso. Negli Stati Uniti, dove è presente almeno una decina di specie, chiamano le Tragia noseburn, "brucia naso", perché, piccole e insignificanti, passano inosservate ed è facile pungersi senza neppure vederle. In compenso, diverse specie hanno proprietà medicinali; tra di esse la più notevole è T. involucrata, un'erbacea eretta con foglie ovoidali, nota come "ortica indiana", usata nella medicina ayurvedica come febbrifugo e antimicrobico. Nel 1919 Pax e Hoffmann separarono da Tragia alcune specie africane, creando il genere Tragiella; oggi comprende quattro specie distribuite tra l'Africa tropicale e meridionale. Anch'esse hanno stelo munito di peli urticanti, ma si distinguono per la presenza di brattee cospicue, per varie particolarità dei fiori e per i frutti trilobati con pericarpo legnoso. Per qualche notizia in più su Tragia e Tragiella si rimanda alle rispettive schede. Nel 1768 il naturalista svizzero Albrecht von Haller creò il genere Tragus (Poaceae), senza spiegarne l'etimologia. Alcuni pensano che si tratti di un altro omaggio al nostro Bock / Tragus, ma è molto più probabile che Haller intendesse alludere alle foglie appuntite e bordate di peli, che possono ricordare le orecchie di una capra. La forma Tragus è davvero insolita per un nome celebrativo e capre e caproni sono di casa nei nomi botanici: basti pensare a Salsola tragus, per l'odore pungente come quello di un caprone, o ancoraTragacantha, per una pianta spinosa e puzzolente, oppure Salix caprea, il "salice delle capre". Insieme a Hieronymus Bock e Leonhart Fuchs, Otto Brunfels è uno dei tre "padri della botanica tedesca" (o, secondo alcuni, della botanica tout court). E' vero che, in area tedesca, il suo Herbarum Vivae Eicones è il primo a superare gli erbari figurati di tradizione medievale, messi insieme con il copia-incolla. Ma se il volume segna una tappa nella storia della botanica, non è tanto per i suoi testi (anch'essi ben poco originali) quanto per le incisioni di Hans Weiditz , il primo a ritrarre le piante dal vero e a farle vivere sulla pagina stampata. Il primo vero illustratore botanico della storia avrebbe meritato un genere celebrativo, ma così non è; invece a celebrare Brunfels, per volontà di Plumier e Linneo, c'è il magnifico genere Brunfelsia. Come si confeziona un prodotto editoriale di successo Come ho raccontato in questo post, il mercato editoriale tedesco aveva scoperto precocemente le potenzialità economiche degli erbari figurati, con una vivace produzione di Kräuter Bücher in lingua tedesca, assai apprezzati da un pubblico relativamente vasto di "illetterati", ovvero di persone che non conoscevano il latino. Costruiti con il copia-incolla riprendendo testi e immagini dalla tradizione manoscritta medievale, non brillavano certo per originalità. Il primo a capire che il mercato era pronto per qualcosa di nuovo fu probabilmente l'editore di Strasburgo Johann Schott, tanto più che aveva sotto mano la persona giusta per scrivere il testo; da qualche anno si era infatti trasferito in città il teologo Otto Brunfels che, oltre ad aver aperto una scuola per i ragazzi, era un poligrafo che aveva già pubblicato per lui due libri di biografie, l'una dedicata agli uomini illustri dell'Antico e del Nuovo testamento, l'altra ai medici celebri. Non era un medico (lo sarebbe diventato poco dopo), ma, oltre ad essere un eccellente latinista, si interessava di botanica ed era aggiornato sulle ultime tendenze che arrivavano dall'Italia. Per altro, più che sul testo, l'avveduto Schott puntava sulle immagini; e anche per quelle aveva la persona giusta: il pittore e incisore Hans Weiditz, figlio di un affermato scultore locale e allievo di Albrecht Dürer. Le xilografie del suo nuovo erbario non sarebbero state l'ennesimo rifacimento di miniature medievali, ma, per la prima volta in assoluto, avrebbero ritratto le piante dal vivo, secondo il nuovo stile naturalistico imposto appunto da Dürer. Che nelle intenzioni di Schott le immagini fossero l'elemento più importante si vede fin dal titolo: Herbarum vivae eicones, ad naturae imitationem, summa cum diligentia et artificio effigiatae, ovvero "Immagini vive delle erbe, effigiate con la massima diligenza e virtuosismo, in modo da imitare la natura". Un titolo che equivale a uno spot pubblicitario. Grazie a quelle immagini senza precedenti, Herbarum vivae eicones di Brunsfeld segnò una tappa fondamentale nella storia della botanica, tanto che Julius von Sachs nella sua Geschicte der Botanik scelse la sua data di pubblicazione, il 1530, come anno di inizio della storia della botanica moderna e proclamò l'autore, insieme a Bock e Fuchs, padre della botanica. Un titolo quanto meno esagerato, anche se l’autore ha i suoi meriti e il libro ne ha ancora di più. Da teologo, a botanico e medico Quando arrivò a Strasburgo, Brunfels era sulla trentina, ma aveva già alle spalle una vita travagliata, vissuta nel fuoco della passione per il rinnovamento religioso e morale, ma anche civile e politico annunciato dalla Riforma. Figlio di un bottaio, giovanissimo si laureò in filosofia e teologia, quindi si fece monaco, prima nella certosa della città natale Magonza, poi in quella di Königshofen nei pressi di Strasburgo. Qui poté frequentare gli ambienti umanistici e pubblicare i suoi primi scritti, dedicati a problemi morali e teologici sulla scia di Erasmo da Rotterdam. La Riforma protestante lo vide in prima fila, schierato al fianco di Lutero ma ancora di più di Ulrich von Hutten, il leader della guerra dei cavalieri. Le sue posizioni erano dunque decisamente radicali e lo costrinsero prima ad abbandonare il monastero, poi a diventare una specie di pastore itinerante, in conflitto non solo con la Chiesa cattolica ma anche con Zwingli e lo stesso Lutero. Negli anni caldi della nascita della Riforma, tra il 1519 e il 1524 egli scrisse copiosamente di argomenti morali e teologici, che spesso avevano anche risvolti politici: in particolare, denunciò l'arbitrarietà delle decime, anche se non fino al punto di invitare i contadini a non pagarle; la sconfitta della guerra dei cavalieri e la morte di von Hutten (che difese ancora dopo la sua scomparsa contro le critiche di Erasmo, ai suoi occhi un opportunista che non aveva avuto il coraggio di schierarsi apertamente con la Riforma) lo spinsero a moderare le sue posizioni e soprattutto ad abbandonare la polemica religiosa, per tornare a Strasburgo. Città libera dell'Impero, ma in posizione decentrata, e dominata dalle posizioni conciliatrici di Martin Butero, rispetto alla Germania poteva essere un asilo abbastanza sicuro e quasi un'oasi di tranquillità. Come ho già accennato, negli otto anni in cui visse a Strasburgo, forse anche in connessione con la professione di maestro, scrisse di molti argomenti, anche se Herbarum vivae eicones rimane la sua opera di maggior impegno. Divisa in tre parti, uscite rispettivamente nel 1530, nel 1532 e nel 1536, si concluse solo dopo la morte dell'autore, avvenuta nel 1534. Non sappiamo se Brunfels si fosse già interessato di botanica in precedenza, magari fin dagli anni in cui era monaco certosino; ma, a parte la raccolta di biografie di medici pubblicata da Schott, non aveva mai scritto nulla né di medicina né di piante medicinali. Ma si appassionò tanto all'argomento che, benché avesse ormai superato la quarantina, andò a Basilea a studiare medicina e, dopo essersi laureato nel 1532, si trasferì a Berna come medico della città. Qui morì nel 1534. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Quando le immagini prevalgono sul testo E' molto probabile che Herbarium vivae eicones come lo leggiamo oggi non corrisponda affatto al progetto che aveva in mente Brunfels quando iniziò a scriverlo. Sulla scorta delle indicazioni degli umanisti italiani, in particolare dei medici dello Studio ferrarese Niccolò Leoniceno e Giovanni Manardo, che invitavano ad abbandonare Plinio per riscoprire Dioscoride nella sua veste originale, e a verificare l'identificazione delle piante dal vivo, l'ex teologo si proponeva di superare i vecchi erbari tedeschi attingendo direttamente alle fonti antiche, prima tra tutte la Materia medica di Dioscoride. Probabilmente intendeva presentare le piante in ordine alfabetico, dando la precedenza o forse l'esclusiva alle specie medicinali citate dagli antichi. Per identificarle correttamente, anche lui, seguendo l'esempio di Leoniceno e Manardo, percorreva le campagne attorno a Strasburgo cercando di identificare le piante mediterranee nominate da Dioscoride nella ben diversa flora del centro Europa, ovviamente incappando in identificazioni forzate o arbitrarie. e le cose non andarono come avrebbe voluto, la colpa (o il merito) fu di Hans Weidnitz. Il pittore doveva essere uno spirito indipendente (e intraprendente) e prese l'iniziativa di ritrarre dal vivo anche piante non previste dall'autore, non solo mai citate da Dioscoride o Plinio, ma spesso pure prive di proprietà officinali. Insomma, vere e proprie erbacce. Brunfels le avrebbe espunte volentieri, o almeno relegate in un'appendice, ma l'editore premeva perché il lavoro procedesse in fretta, e, mano a mano che le matrici erano pronte, venissero stampate le xilografie con i testi relativi. Così l'ordine previsto da Brunfels saltò, e le specie vennero disposte in un ordine casuale, dettato dalle esigenze editoriali. Per Brunfels fu sicuramente uno smacco, tanto che si scusa addirittura con i lettori di aver inserito queste piante nel corpo del testo e le chiama spregiativamente “plantae nudae”, indegne di essere illustrate perché non coperte dal prestigio di una designazione autorevole. Eppure sono proprio le spregevoli piante nude a rendere interessante il libro di Brunfels ai nostri occhi: su 258 specie o varietà illustrate, quelle mai descritte in precedenza sono 47, e sono le uniche per le quali il supposto "padre della botanica" scrive ciò che vede con i suoi occhi o ha saputo dai suoi informatori, e non ciò che riprende diligentemente dalle fonti antiche. Per scoprire i loro nomi e sapere qualcosa dei loro eventuali usi, senza alcuna spocchia intellettuale, egli si rivolse infatti agli erboristi e anche alle «vecchiette espertissime» che «non conoscono le piante grazie ai libri, ma sono stati ammaestrati dall'esperienza». E sicuramente non gli spiacque che l’editore prendesse l’iniziativa di affiancare all'edizione latina una versione tedesca, il Contrafayt Kreüterbuoch (ovvero “Libro d’erbe illustrato”), con l’aggiunta di una cinquantina di illustrazioni originali. Oggi si tende sostanzialmente a ridimensionare il valore storico dell’opera di Brunfels, giudicata un lavoro sostanzialmente compilatorio, mentre non si manca di sottolineare l’altissima qualità delle illustrazioni di Hans Weiditz (1497-1537 circa). Probabilmente si deve a lui la maggior parte delle immagini dei primi due volumi dell’Herbarum Vivae Eicones, anche se fu assistito da altri pittori e da uno o più incisori. Weiditz, come abbiamo già visto, scelse con una certa autonomia le piante da ritrarre; le disegnò e le dipinse da vivo, non in modo idealizzato, ma estremamente realistico tanto che in alcune tavole vediamo fiori appassiti, foglie strappate o mangiate dagli insetti. Da questo punto di vista, le sue immagini sono abbastanza lontane dalle future convenzioni dell’illustrazione botanica che rappresenta le piante non in modo individuale, ma ideale; invece troviamo già le piante decontestualizzate, disposte sul foglio bianco staccate dal loro habitat; in alcuni esemplari sono presentati diversi stati della vita della pianta ritratta, con fiori e frutti insieme. Nel 1930 a Berna, in un volume appartenuto a Felix Platter, furono ritrovati settantasette acquarelli di piante dipinte da Weiditz: si tratta di una parte degli originali da cui furono tratte le xilografie dei volumi di Brunfels. Rispetto a queste ultime, sono ancora più notevoli per virtuosismo e naturalismo; gli incisori non di rado le adattarono alla pagina, spesso disponendole in posizioni innaturali e le riprodussero con un tratto piuttosto sottile, senza chiaroscuro; inoltre le dimensioni delle xilografie sono molto variabili, dalla pagina piena a pochi centimetri, con il testo che si dispone intorno in modo a volte un po' disordinato. Probabilmente, erano previste copie di lusso acquarellate a mano, di cui gli originali di Weiditz costituiscono il modello per i colori. Le illustrazioni di Weidnitz imposero un nuovo standard, tanto che furono immediatamente piratate: nel 1533 l’editore Egenolph ne fece copiare alcune (invertite e ridotte nelle dimensioni) per illustrare il Kreutterbuoch di Eucharius Rösslin; Schott gli fece causa e l’editore rivale fu costretto a desistere (ne ho parlato in questo post). Qualche anno più tardi, esercitarono una notevole influenza sugli artisti che illustrarono De historia stirpium di Fuchs. Fiori profumati, fiori cangianti A far entrare Brunfels nella terminologia botanica con la dedica di uno dei suoi generi americani fu il solito padre Plumier, che con tono lievemente apocalittico sottolinea il ruolo di precursore del botanico-teologo: «Per primo in Germania cercò di strappare la botanica medica, quasi estinta, da profondissime tenebre». E ciò resta vero non solo per il pionieristico Herbarum vivae eicones, ma anche per aver stimolato e incoraggiato altri botanici a seguirlo sulla stessa strada: fu lui a persuadere Hieronymus Bock a pubblicare il suo erbario tedesco, sobbarcandosi un viaggio a piedi da Strasburgo a Hornbach per convincerlo di persona; in appendice a Herbarum vivae eicones, pubblicò i primi scritti dello stesso Bock e di Fuchs; e fu certo l’interesse suscitato dal libro di Brunfels a spingere Euricius Cordus a scrivere e pubblicare il suo Botanologicon. Validato da Linneo nel 1753, il genere Brunfelsia, della famiglia Solanaceae, comprende una cinquantina di specie di piccoli alberi e arbusti, più qualche liana, diffuse esclusivamente nell'America tropicale, dalle Antille all'Argentina. Hanno grandi fiori profumati tubolari, con corolla piatta, lievemente zigomorfi, con cinque grandi lobi, simili a quelli delle petunie (i generi sono piuttosto affini e appartengono alla medesima tribù, quella delle Petunieae). Come molte piante di questa famiglia, contengono sostanze medicinali e alcaloidi, le cui proprietà sono state scoperte e sfruttate dalle culture indigene; tuttavia diverse componenti sono tossiche e possono causare problemi sia all'uomo sia agli animali domestici. Diverse specie di Brunfelsia sono coltivate per il grande valore ornamentale nei paesi a clima mite. Le più note sono B. americana e B. pauciflora. B. americana è un piccolo albero originario delle Antille, dove lo vide e lo descrisse padre Plumier; sempreverde, ha grandi fiori solitari dapprima bianchi poi giallo crema, che si aprono di notte diffondendo un forte profumo che gli ha guadagnato il soprannome di “signora della notte”. Da noi è però più coltivata l’arbustiva B. pauciflora, originaria del Brasile, che al momento della fioritura dà spettacolo con le sue corolle in tre colori. Infatti i suoi fiori hanno la curiosa particolarità di cambiare colore: al momento dell’apertura sono viola purpureo, quindi lavanda, infine, poco prima di appassire, bianchi. Ecco perché gli inglesi la chiamano yesterday-today-tomorrow, “ieri, oggi, domani”. Nessuna delle due specie è rustica. Garantisce invece una buona resistenza al freddo B. australis, che come dice il nome specifico ha una distribuzione più meridionale (dal Brasile meridionale all’Argentina); è simile a B. pauciflora, ma con portamento più compatto e fiori più piccoli, anch'essi in tre colori. Qualche approfondimento nella scheda. Curioso destino, quello di Johann Reinhold Forster e di suo figlio Georg. Oggi il primo è considerato uno dei filosofi naturali più interessanti dell'ultimo Settecento, e il secondo uno dei padri dell'etnologia. Eppure, al loro tempo, l'uno e l'altro sono stati ostracizzati per motivi diversi. A rovinare la fama di Johann Reinhold è stato il suo pessimo carattere, che lo ha fatto definire da uno dei biografi di Cook un "incubo"; la reputazione di Georg è stata invece compromessa dall'entusiastica adesione alla rivoluzione francese, che gli è costata la condanna come traditore della patria, l'esilio, la morte precoce e il lungo oblio della sua opera scientifica. Entrambi parteciparono alla seconda spedizione di Cook, il padre come naturalista ufficiale, il secondo soprattutto come disegnatore e, al di là delle polemiche, si dimostrarono naturalisti solerti e capaci. A ricordarli nella terminologia botanica un genere di piante minuscole endemiche della Nuova Zelanda e della Tasmania, Forstera. A raccogliere il primo esemplare nei pressi di Cascade Cove fu Anders Sparmman che volle dedicarla al "mio compagno botanico" Georg Forster. Prima del viaggio: un erudito tedesco Anche ai suoi tempi, nessuno dubitava che Johann Reinhold Forster, il naturalista ufficiale della seconda spedizione Cook, fosse un uomo coltissimo e di grande competenza scientifica. Eppure la convivenza con Cook fu così disastrosa che, dopo quell'esperienza, il navigatore decise di non volere più alcun naturalista a bordo. Il giudizio del biografo di Cook J.C. Beaglehole è senza appello: "Niente può renderlo diverso da uno dei peggiori errori dell'ammiragliato. Dall'inizio alla fine del viaggio, e anche successivamente, fu un incubo. Si esita a descriverne le caratteristiche, nel timore che il ritratto passi per una caricatura. Dogmatico, privo di umorismo, sospettoso, pretenzioso, polemico, censorio, esigente, afflitto dai reumatismi: era un problema sotto qualsiasi punto di vista". Molto diversa è l'immagine che ne dà il biografo di Forster Michael E. Hoare, che ha anche curato la monumentale edizione del suo diario del viaggio della Resolution. Secondo Hoare, egli è stato uno dei grandi geni universali dell'ultimo Settecento e l'oblio che è caduto sulla sua figura è una grande perdita per l'antropologia, la linguistica, la geografia e la zoologia del Pacifico. Le incomprensioni e lo scontro con Cook, più che al celebre cattivo carattere dello studioso tedesco, sarebbero dovuti allo incontro impossibile tra due mondi e due visioni della vita: da una parte, un marinaio e un uomo d'arme, dall'altra un filosofo, anzi un "filosofo senza tatto", come lo ha battezzato lo stesso Hoare. Proviamo dunque a raccontarlo, questo personaggio impossibile. E con lui suo figlio Georg, allievo, compagno di viaggio, ragazzo prodigio da esibire, in una relazione padre-figlio che ricorda per molti aspetti quella tra Leopold e Wolfgang Amadeus Mozart. Johann Reinhold Forster, discendente da una famiglia di origine scozzese emigrata in Germania, nacque all'estrema periferia del mondo tedesco, a Dirschau, nei pressi di Danzica. Dopo aver studiato teologia, lingue classiche e orientali all'Università di Halle, divenne pastore della chiesa luterana di Nassenhuben, un altro villaggio della Pomerania prussiana. Gli aneddoti riferiscono di un pastore riluttante: aveva speso gran parte dell'eredità paterna in libri, e tutto il suo tempo era dedicato allo studio; a preparare i sermoni dedicava solo qualche minuto e durante il servizio spesso era così stanco da cadere addormentato. Intanto si era sposato con una cugina, da cui ebbe ben otto figli. Durante la Guerra dei sette anni (1756-63), quando la sua parrocchia fu ripetutamente occupata dalle truppe russe, conquistò però la stima dei suoi parrocchiani difendendo con energia i loro interessi e le loro proprietà dalla rapacità degli occupanti. Insoddisfatto della sua posizione, fece sapere al residente russo a Danzica che era disposto a trasferirsi in Russia come pastore. Fu forse in seguito a questa richiesta che nel 1764 Caterina II lo incaricò di ispezionare gli insediamenti tedeschi lungo il corso del Volga, per dissipare le voci negative sulle condizioni di vita dei coloni. Lasciando il resto della famiglia a Nassenhuben, Forster partì per la Russia con il figlio maggiore Georg, all'epoca un bambino di dieci anni. Un bambino molto speciale: così appassionato di scienze naturali che il padre, per soddisfare la sua curiosità, acquistò le opere di Linneo e incominciò a studiare zoologia e botanica insieme a lui. Forster prese molto sul serio l'incarico, e ne approfittò per studiare la meteorologia e la storia naturale della regione. La zarina contava su una relazione edulcorata, invece Johann Reinhold presentò un rapporto fortemente critico; di conseguenza gli fu negato il salario promesso. Dopo qualche mese passato a San Pietroburgo cercando inutilmente di essere pagato (Georg ne approfittò per imparare decentemente il russo), quando tornò in patria scoprì che a causa della prolungata assenza era stato privato della parrocchia. Forster decise di andare a cercare fortuna in Inghilterra, forse anche per evitare ritorsioni da parte delle autorità russe. Lasciando nuovamente il resto della famiglia in Pomerania, nell'autunno del 1766 si trasferì a Londra con il piccolo Georg. Non riuscì a trovare impiego al neonato British Museum come aveva sperato, ma nella primavera del 1767 fu assunto come insegnante di lingue moderne e scienze naturali alla Warrington Academy, una scuola non conformista con un curriculum innovativo. L'incarico durò poco: non per la scarsa qualità dell'insegnamento (Hoare, che ha studiato i materiali delle lezioni, ne sottolinea la profondità e l'alto livello) ma per il "caratteraccio" di Forster, accusato di aver inflitto "misure disciplinari violente" a uno studente; senza contare i debiti contratti con molti fornitori. Dopo aver insegnato lingue per un altro anno in una Grammar School della stessa località, Forster tornò a Londra, dove si mantenne con traduzioni sue e del figlio, specializzandosi nei racconti di viaggio: tradusse tra l'altro in inglese le relazioni degli allievi di Linneo Kalm, Loefling e Osbeck e il Viaggio intorno al mondo di Bougainville. Inoltre era redattore di una rivista specializzata in letteratura internazionale. Presentando diversi lavori su svariati soggetti alla Società degli Antiquari e alla Royal Society riuscì a farsi una solida reputazione come naturalista; inoltre era in corrispondenza con molti scienziati in Inghilterra e all'estero, incluso Linneo. Nel 1771 pubblicò A Catalogue of the Animals of North America, accreditandosi come zoologo. Lo stesso anno fu ammesso alla Royal Society. Così, quando praticamente da un giorno all'altro Banks e Solander rinunciarono a partire per il secondo viaggio di Cook, Forster sembrò indiscutibilmente il candidato ideale. Tanto più che l'avrebbe accompagnato suo figlio, un disegnatore di talento, "senz'altro molto utile in questa parte della faccenda", come scrisse il lord dell'Ammiragliato, lord Sandwich. Per tagliar corto con la burocrazia, il re autorizzò il pagamento di una discreta somma per l'acquisto delle attrezzature e in dieci giorni i Forster erano pronti a partire. Prima del viaggio: un erudito tedesco Anche ai suoi tempi, nessuno dubitava che Johann Reinhold Forster, il naturalista ufficiale della seconda spedizione Cook, fosse un uomo coltissimo e di grande competenza scientifica. Eppure la convivenza con Cook fu così disastrosa che, dopo quell'esperienza, il navigatore decise di non volere più alcun naturalista a bordo. Il giudizio del biografo di Cook J.C. Beaglehole è senza appello: "Niente può renderlo diverso da uno dei peggiori errori dell'ammiragliato. Dall'inizio alla fine del viaggio, e anche successivamente, fu un incubo. Si esita a descriverne le caratteristiche, nel timore che il ritratto passi per una caricatura. Dogmatico, privo di umorismo, sospettoso, pretenzioso, polemico, censorio, esigente, afflitto dai reumatismi: era un problema sotto qualsiasi punto di vista". Molto diversa è l'immagine che ne dà il biografo di Forster Michael E. Hoare, che ha anche curato la monumentale edizione del suo diario del viaggio della Resolution. Secondo Hoare, egli è stato uno dei grandi geni universali dell'ultimo Settecento e l'oblio che è caduto sulla sua figura è una grande perdita per l'antropologia, la linguistica, la geografia e la zoologia del Pacifico. Le incomprensioni e lo scontro con Cook, più che al celebre cattivo carattere dello studioso tedesco, sarebbero dovuti allo incontro impossibile tra due mondi e due visioni della vita: da una parte, un marinaio e un uomo d'arme, dall'altra un filosofo, anzi un "filosofo senza tatto", come lo ha battezzato lo stesso Hoare. Proviamo dunque a raccontarlo, questo personaggio impossibile. E con lui suo figlio Georg, allievo, compagno di viaggio, ragazzo prodigio da esibire, in una relazione padre-figlio che ricorda per molti aspetti quella tra Leopold e Wolfgang Amadeus Mozart. Johann Reinhold Forster, discendente da una famiglia di origine scozzese emigrata in Germania, nacque all'estrema periferia del mondo tedesco, a Dirschau, nei pressi di Danzica. Dopo aver studiato teologia, lingue classiche e orientali all'Università di Halle, divenne pastore della chiesa luterana di Nassenhuben, un altro villaggio della Pomerania prussiana. Gli aneddoti riferiscono di un pastore riluttante: aveva speso gran parte dell'eredità paterna in libri, e tutto il suo tempo era dedicato allo studio; a preparare i sermoni dedicava solo qualche minuto e durante il servizio spesso era così stanco da cadere addormentato. Intanto si era sposato con una cugina, da cui ebbe ben otto figli. Durante la Guerra dei sette anni (1756-63), quando la sua parrocchia fu ripetutamente occupata dalle truppe russe, conquistò però la stima dei suoi parrocchiani difendendo con energia i loro interessi e le loro proprietà dalla rapacità degli occupanti. Insoddisfatto della sua posizione, fece sapere al residente russo a Danzica che era disposto a trasferirsi in Russia come pastore. Fu forse in seguito a questa richiesta che nel 1764 Caterina II lo incaricò di ispezionare gli insediamenti tedeschi lungo il corso del Volga, per dissipare le voci negative sulle condizioni di vita dei coloni. Lasciando il resto della famiglia a Nassenhuben, Forster partì per la Russia con il figlio maggiore Georg, all'epoca un bambino di dieci anni. Un bambino molto speciale: così appassionato di scienze naturali che il padre, per soddisfare la sua curiosità, acquistò le opere di Linneo e incominciò a studiare zoologia e botanica insieme a lui. Forster prese molto sul serio l'incarico, e ne approfittò per studiare la meteorologia e la storia naturale della regione. La zarina contava su una relazione edulcorata, invece Johann Reinhold presentò un rapporto fortemente critico; di conseguenza gli fu negato il salario promesso. Dopo qualche mese passato a San Pietroburgo cercando inutilmente di essere pagato (Georg ne approfittò per imparare decentemente il russo), quando tornò in patria scoprì che a causa della prolungata assenza era stato privato della parrocchia. Forster decise di andare a cercare fortuna in Inghilterra, forse anche per evitare ritorsioni da parte delle autorità russe. Lasciando nuovamente il resto della famiglia in Pomerania, nell'autunno del 1766 si trasferì a Londra con il piccolo Georg. Non riuscì a trovare impiego al neonato British Museum come aveva sperato, ma nella primavera del 1767 fu assunto come insegnante di lingue moderne e scienze naturali alla Warrington Academy, una scuola non conformista con un curriculum innovativo. L'incarico durò poco: non per la scarsa qualità dell'insegnamento (Hoare, che ha studiato i materiali delle lezioni, ne sottolinea la profondità e l'alto livello) ma per il "caratteraccio" di Forster, accusato di aver inflitto "misure disciplinari violente" a uno studente; senza contare i debiti contratti con molti fornitori. Dopo aver insegnato lingue per un altro anno in una Grammar School della stessa località, Forster tornò a Londra, dove si mantenne con traduzioni sue e del figlio, specializzandosi nei racconti di viaggio: tradusse tra l'altro in inglese le relazioni degli allievi di Linneo Kalm, Loefling e Osbeck e il Viaggio intorno al mondo di Bougainville. Inoltre era redattore di una rivista specializzata in letteratura internazionale. Presentando diversi lavori su svariati soggetti alla Società degli Antiquari e alla Royal Society riuscì a farsi una solida reputazione come naturalista; inoltre era in corrispondenza con molti scienziati in Inghilterra e all'estero, incluso Linneo. Nel 1771 pubblicò A Catalogue of the Animals of North America, accreditandosi come zoologo. Lo stesso anno fu ammesso alla Royal Society. Così, quando praticamente da un giorno all'altro Banks e Solander rinunciarono a partire per il secondo viaggio di Cook, Forster sembrò indiscutibilmente il candidato ideale. Tanto più che l'avrebbe accompagnato suo figlio, un disegnatore di talento, "senz'altro molto utile in questa parte della faccenda", come scrisse il lord dell'Ammiragliato, lord Sandwich. Per tagliar corto con la burocrazia, il re autorizzò il pagamento di una discreta somma per l'acquisto delle attrezzature e in dieci giorni i Forster erano pronti a partire. Seconda parte: Nuova Zelanda-Spithead A giugno le due navi ripartono verso nord per esplorare il Pacifico centrale. Il 15 agosto raggiungono Tahiti, che impressiona fortemente Georg, forse influenzando le sue future idee politiche. Johann Reinhold, che è di cattivo umore per essere stato ferito durante una manovra, lamenta che ancora una volta sono arrivati nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Dopo una breve sosta, il viaggio riprende attraverso le isole della Società. Qui, all'inizio di settembre, nell'isola di Raiatea, avviene la rottura tra Cook e Forster. Durante un'escursione a terra, vedendo che un indigeno cerca di impadronirsi del moschetto di suo figlio, Forster padre spara e lo ferisce. Un incidente che potrebbe costare molto caro, come ben sa il comandante, che rimprovera aspramente il naturalista; i due si scambiano male parole, finché Cook lo spinge fuori dalla sua cabina con violenza. Tre giorni dopo si rappacificano e si stringono la mano, ma qualcosa si è rotto per sempre. Da quel momento, agli occhi di Forster Cook è l'uomo egoista che non ha alcun interesse per la scienza e pensa solo alla sua gloria personale. Per il comandante, Forster è sempre più una mina vagante che, oltre a rendere irrespirabile l'atmosfera a bordo, può causare devastanti conflitti con gli indigeni. Il viaggio continua. A ottobre vistano alcune isole delle Tonga. Qui non ci sono molte nuove piante, ma in compenso ad attrarre entrambi i Foster sono i costumi degli abitanti delle isole, la loro musica, le loro lingue, che Georg studia e mette a confronto. Quindi tornano a sud; nuovamente una tempesta separa le due navi, che non si congiungeranno mai più. Il 3 novembre la Resolution è di nuovo nel Queen Charlotte Sound. Rispetto alla prima visita, ci sono molte più fioriture. Tra le piante in fiore c'è Phormium tenax (oggi forse la pianta più nota della Nuova Zelanda) e diverse orchidee, tra cui Thelymitra longifolia. In tutto le specie raccolte sono una trentina, ma Johann Reinhold è deluso perché si aspettava di trovare più animali. Dopo tre settimane di attesa, Cook si convince che l'Adventure sia naufragata durante la tempesta e decide di ripartire. In realtà, Furneaux ha raggiunto anch'esso la Nuova Zelanda in un altro punto, ma, avendo perso diversi uomini in seguito a un attacco maori e essendo a corto di provviste, ha deciso di rientrare in Inghilterra. Come l'estate precedente, anche quella del 1773-4 è dedicata all'esplorazione delle regioni antartiche. La Resolution riprende a percorrere e ripercorrere quei mari gelidi. Il 30 gennaio 1774 incontra un immenso campo di ghiaccio; Cook sospetta si estenda fino al Polo. Ci troviamo a 71° 10' di latitudine sud, il punto più meridionale mai toccato da una nave prima di allora. Forster soffre atrocemente di reumatismi, e ancora più lo angustia la sua personale ossessione: "Ci siamo affaticati per diciotto mesi, ma non abbiamo visto nulla che non sia già stato visto prima. Da parte mia credo che le poche piante e i pochi animali che abbiamo potuto incontrare durante le nostre brevi soste sono probabilmente già state osservate da Mr. Banks e dal dr. Solander". E' ora di tornare in acque più calde. La Resolution ora punta a nord e completa il periplo del Pacifico. Dopo quasi cinque mesi passati ininterrottamente in mare, il primo scalo, a marzo, è l'isola di Pasqua. Quindi si fa rotta per le Marchesi, Tahiti e nuovamente Raiatea. Durante il secondo soggiorno a Tahiti, nella speranza di trovare almeno qualche pianta che sia sfuggita a Banks e Solander, Forster padre scala le colline che coronano Matavai Bay accompagnato da un ragazzo del posto; il cammino è insidioso; sotto la pioggia cade e si procura una lussazione che lo farà zoppicare per anni. L'unica consolazione è aver trovato otto piante che molto probabilmente Banks e Solander non hanno mai visto. Cook esplora e cartografa le isole che portano il suo nome. A Niue (che di conseguenza Cook ribattezzerà isola selvaggia), Sparmann e Georg non fanno in tempo a sbarcare che vengono accolti da una sassaiola. Nelle isole Tonga, Cook proibisce ai naturalisti di scendere a terra, suscitando le prevedibili proteste di Forster. A Tanna, nelle Vanuatu, il naturalista mette le mani addosso a un indigeno che secondo lui voleva imbrogliarlo; dopo aver cercato inutilmente di fermarlo, il secondo ufficiale Charles Clerk ordina a una sentinella di sparargli se non la smette. Forster reagisce mettendo mano alla pistola. Tutti e due vanno a protestare da Cook, che sembra non credere né all'uno né all'altro. E' poi la volta di Vatoa, l'unica isola delle Fiji visitata, e delle Nuove Ebridi, sempre con soste ridotte al minimo che rendono furioso Forster: "Il denaro pubblico è andato sprecato e la mia missione, che consiste nel raccogliere nuove piante, di cui queste isole sono piene, è stata resa del tutto inutile. Che senso ha vedere due o tre isole in più? senza conoscere di quell'isola i prodotti, la natura del suolo, la disposizione degli abitanti, tutto ciò che non può essere imparato osservandola dal largo". Mai il contrasto di obiettivi tra marinai-geografi e naturalisti è stato espresso in modo più netto. Eppure le scoperte geografiche sono eccezionali: prima di tornare per la terza volta in Nuova Zelanda, Cook scopre la Nuova Caledonia e l'isola Norfolk. Il 19 ottobre, getta nuovamente l'ancora nel Queen Charlotte Sound. E' di nuovo una sosta di tre settimane, durante la quale Sparrman e i Forster raccolgono qualche pianta, ma senza entusiasmo: lo scalo è sempre quello, non c'è molto di nuovo da scoprire. L'11 novembre si riparte, questa volta per tornare a casa. Tenendosi approssimativamente a 50° di latitudine, la Resolution attraversa il Pacifico in direzione est e il 18 dicembre raggiunge il Sud America. Natale sarà festeggiato nella Terra del Fuoco. Il 21 marzo 1775 sono a Cape Town, dove Sparrman si separa dagli amici e la Resolution viene rimessa in sesto per affrontare l'ultimo tratto. Il 30 luglio 1775, poco più di tre anni dalla partenza, getta l'ancora a Spithead, in Inghilterra. Dal punto di vista geografico e oceanografico, è una delle spedizioni più importanti di tutti i tempi, con buona pace dell'inquieto Forster. Che, tuttavia, può vantare la raccolta di 260 nuove piante e circa 200 nuovi animali; l'erbario conta migliaia di esemplari di 785 diverse specie, di cui 119 della Nuova Zelanda, la zona dove sono state fatte le raccolte più cospicue. Molto notevole è anche la raccolta di oggetti e manufatti etnografici. Dopo il viaggio: altri guai Gli scontri non sono finiti. Forse in base ad accordi orali con l'ammiragliato, Forster è convinto che gli sarà affidata la redazione del resoconto ufficiale della spedizione, un incarico che invece Cook rivendica per sé. Lord Sandwich tenta un compromesso: Cook scriverà la parte relativa alla navigazione e alle scoperte geografiche, Forster quella naturalistica; i ricavi verranno divisi a metà. Sembra funzionare: Forster prepara un capitolo di prova e lo presenta a Sandwich, che, insoddisfatto della forma linguistica, lo restituisce con molte correzioni e propone di affidare la revisione a un curatore madrelingua. Apriti cielo! Forster lo vive come un oltraggio, un tentativo mascherato di censura. Si impunta e non ascolta ragioni, finché lord Sandwich affida la redazione del resoconto al solo Cook. Forster, che sperava anche in un buon riscontro finanziario (come sempre, è pieno di debiti), cerca di batterlo sul tempo. Suo figlio Georg, che non ha alcun impegno formale con l'Ammiragliato, scriverà a tempo di record la sua versione, utilizzando i diari propri e del padre. E così nel marzo 1777 esce A voyage around the World di Georg Forster, anticipando di sei settimane lo scritto di Cook. E' uno sgarbo istituzionale: in Inghilterra molti pensano che il vero autore sia Johann Reinhold. E, oltre tutto, vende pochissimo: per tirare avanti, i Forster sono costretti a vendere parte della collezione etnografica e, quel che è peggio, i disegni di Georg. A aggiudicarseli è Banks, che sta diventando sempre più la bestia nera dei due naturalisti tedeschi. Georg incomincia a lavorare all'edizione tedesca, Reise um die Welt (1778-80), che, al contrario della controversa versione inglese, avrà un'accoglienza trionfale. Con la sua prosa non solo scientificamente accurata, ma anche vivace, coinvolgente, di facile lettura, è considerato un caposaldo della letteratura di viaggio, che ha grandemente influenzato la letteratura tedesca. Particolarmente importante la parte etnografica, che fa di Georg un precursore dell'etnografia e una delle fonti più importanti sulle lingue, le religioni, la musica, i costumi e l'economia dei popoli polinesiani. In Germania, di colpo, i Forster diventano eroi nazionali. Nel gennaio 1777 Georg, che adesso ha ventitré anni, viene ammesso alla Royal Society. Quindi va in Germania, nella speranza di trovare una sistemazione accademica per il padre; la situazione finanziaria di quest'ultimo è infatti sempre più compromessa, tanto che rischia il carcere per debiti. Con sorpresa, Georg scopre che il prestigioso Collegium Carolinum di Kassel preferisce assegnare la cattedra di storia naturale a lui anziché al padre. Allora va a Berlino a perorare la causa paterna; grazie all'interessamento dello stesso Federico II, infine Johann Reinhold viene nominato professore di storia naturale e ricerca mineraria presso la sua alma mater, l'Università di Halle. Il duca di Brunswick si offre graziosamente di estinguere i suoi debiti. Dopo tante inquietudini, la vita di Johann Reinhold sfocia in una tranquilla carriera accademica: insegnerà ad Halle per vent'anni (1779-1798), diventerà un riconosciuto membro dell'establishment universitario, verrà ammesso a molte accademie in giro per l'Europa. Ma non riuscirà a finire o a vedere pubblicate le varie opere che aveva progettato. La più importante, Descriptiones animalium, uscirà solo nel 1844, molti anni dopo la sua morte. La vita di Georg fu più movimentata e più tragica. In corrispondenza con molti intellettuali del tempo, divenne una figura di punta dell'illuminismo tedesco. Insieme a Georg Christoph Lichtenberg, che insegnava a Gottinga, fondò e pubblicò la rivista letteraria Göttingisches Magazin der Wissenschaften und Litteratur. Innamoratosi di Therese Heyne, che sarebbe divenuta una delle prime scrittrici tedesche, nel 1784 per poterla sposare accettò di trasferirsi all'Università di Vilnius, sempre come professore di scienze naturali. L'anno successivo si laureò in medicina a Halle, con una tesi sulle piante del Pacifico meridionale. L'ambiente di Vilnius lo lasciava insoddisfatto, e nel 1787 ruppe il contratto, nella speranza di partecipare a una spedizione russa intorno al mondo, che tuttavia venne annullata. Si trasferì quindi a Magonza come capo bibliotecario dell'Università. Nel frattempo aveva continuato a scrivere di argomenti diversi, anche se la cronica mancanza di denaro l'aveva spesso costretto a privilegiare brevi lavori occasionali e traduzioni. Tra gli allievi di suo suocero Christian Gottlob Heyne a Gottinga c'era anche il ventenne Alexander von Humboldt che ammirava molto Reise um die Welt (anni dopo confesserà che fu proprio questa lettura a fargli scoprire la sua vocazione di naturalista-viaggiatore); il giovane strinse amicizia con Forster e nel 1790 i due viaggiarono insieme in Renania, quindi visitarono Bruxelles, L'Aia, Amsterdam, Londra, Parigi. Forster raccontò questo viaggio in Vedute del Basso Reno, Brabante e Fiandre, in tre volumi, un libro che impressionò grandemente lo stesso Goethe. Di notevole importanza la parte dedicata alla storia dell'arte, con la prima riscoperta dello stile gotico. A Parigi Forster poté seguire le vicende iniziali della rivoluzione francese, cui guardava con entusiasmo. Nel 1792, quando le truppe francesi occuparono Magonza, si unì al locale Club giacobino e partecipò attivamente alla fondazione della Repubblica di Magonza; divenne vice-presidente dell'amministrazione provvisoria, deputato alla Convenzione nazionale tedesca e redattore del Nuovo giornale di Magonza o L'amico del popolo, che anche nel titolo si ispirava alla omonima rivista di Marat. Cosciente che la neonata repubblica non sarebbe stata in grado di reggersi senza il sostegno francese, il 23 marzo 1793 la Convenzione decise di inviare a Parigi tre delegati (Georg Forster, Adam Lux e Potocki) per chiedere l'adesione alla Francia. Tuttavia poco dopo le truppe prussiane invasero la repubblica e presero Magonza dopo un lungo assedio; Forster fu proscritto come traditore della patria. Costretto a rimanere a Parigi, assisté al Terrore. Tra le vittime anche il suo collega Adam Lux, ghigliottinato per aver scritto un'apologia di Carlotta Corday. In miseria e sempre più malato, Georg Forster morì di polmonite nel gennaio 1794, prima di compiere quarant'anni. Una sintesi della vita dei due Forster nella sezione biografie. Le idee politiche condannarono Georg Forster all'ostracismo postumo. Il suo ricordo fu recuperato dalla Repubblica democratica tedesca, ma la sua importanza per la cultura tedesca ed europea ha incominciato ad essere pienamente riconosciuta solo negli anni '70 del Novecento. Come padre fondatore dell'etnologia tedesca, la Fondazione Humboldt gli ha intitolato un premio e una borsa di studio. Minuscoli endemismi delle isole Nel 1776, Johann Reinhold Forster inviò a Linneo, di cui era grande ammiratore, dieci nuove piante raccolte durante la spedizione, con le relative descrizioni e i nomi binomiali, perché le validasse e le pubblicasse. Le descrizioni erano state redatte presumibilmente da Sparrman, ma il testo era stato organizzato da Georg e rivisto da Johann Reinhold. Linneo fece in tempo a preparare il manoscritto di Decas plantarum, ma non a pubblicarlo, a causa della malattia che lo portò alla morte. A provvedere alla pubblicazione fu nel 1780 suo figlio Carl junior. A causa di questa intricata vicenda, la paternità del genere Forstera in passato è stata attribuita a Linneo figlio, mentre oggi viene riconosciuta a Georg Forster attraverso Linneo padre. Tra quelle dieci piante c'è anche il dono d'amicizia di Sparrman; Georg, sempre devoto al padre, volle che l'omaggio fosse esteso anche a lui, sebbene questa tenera pianticella sembri più adatta a lui com'era nei suoi vent'anni che all'ipocondriaco e rancoroso Johann Reinhold. Il genere Forstera, della famiglia Stylidiaceae, comprende sette specie di erbacee perenni, sei endemiche della Nuova Zelanda e una della Tasmania; sono piante alpine o subalpine che crescono in terreni sciolti ma con umidità costante. Le specie della Nuova Zelanda hanno portamento decombente, con steli più o meno ramificati che tendono a formare densi tappeti, strisciando a livello del terreno, con foglie rivolte verso l'alto agli apici e spesso si addensano e si sovrappongono; nelle zone esposte tuttavia gli steli sono eretti e molto più brevi, non più lunghi di 2 cm. L'unica specie tasmana, F. bellidifolia, ha invece foglie basali raccolte a rosetta e steli eretti. I fiori, generalmente solitari, talvolta in gruppi di due-tre, sono portati all'apice di lunghi e sottili scapi che emergono al di sopra del fogliame; a forma di coppa, con breve tubo e sei petali, sono per lo più bianchi, talvolta con gola rosata, rossa o arancio. Un elenco delle specie e qualche approfondimento nella scheda. I maggiori risultati della spedizione "nuziale" in Brasile non furono raggiunti dagli scienziati austriaci (con l'eccezione del ribelle Natterer, che disobbedì agli ordini e rimase nel paese sudamericano quasi vent'anni), ma dai naturalisti bavaresi Spix e Martius. La loro fu una delle più fortunate e celebri spedizioni dell'epoca, seconda solo a quella di Bompland e Humboldt. Non solo i due amici ritornarono in patria con straordinarie collezioni, ma i loro studi successivi diedero un contributo eccezionale alla conoscenza della fauna e della flora del Sud America. Martius divenne uno dei botanici più importanti della sua generazione; la sua squisita Storia naturale delle palme è stata definita "la più superba trattazione delle palme che sia mai stata prodotta" e gli ha guadagnato il soprannome "padre delle palme". Quanto all'immensa Flora Brasiliensis, di cui fu il primo curatore e che coinvolse oltre sessanta botanici di diversi paesi, ancora oggi è il testo di riferimento per la flora brasiliana ed una delle opere più importanti della storia della botanica. I colleghi gli dedicarono molti generi, creando un nodo gordiano di sinonimi e omonimi che è stato risolto solo nel Novecento con la creazione del genere Martiodendron. Un viaggio epico Verso la fine del 1816, il re di Baviera Massimiliano I Giuseppe fu invitato a un matrimonio: le nozze per procura dell'arciduchessa Maria Leopoldina d'Austria con l'erede al trono del Portogallo. A Vienna seppe che si stava preparando una grande spedizione scientifica che avrebbe accompagnato la principessa in Brasile. Il sovrano bavarese era di idee progressiste (era stato il principale alleato di Napoleone in Germania) ed era un grande ammiratore di Humboldt. Già da tempo pensava a una spedizione in Sud America che, partita da Buenos Aires, avrebbe dovuto dirigersi in Cile e in Perù, per poi rientrare in Europa imbarcandosi in Venezuela o in Messico. La situazione politica e difficoltà finanziarie lo avevano costretto a desistere. Ora si presentava l'occasione di riprendere quel progetto su nuove basi, aderendo all'iniziativa austriaca. Fu così che sull'Austria, salpata da Trieste il 10 aprile 1817, si imbarcarono anche due scienziati bavaresi, lo zoologo Johann Baptist Spix e il botanico Carl Friedrich Philipp Martius. Al momento della partenza, Spix aveva 35 anni ed era già uno studioso riconosciuto, allievo di Cuvier a Parigi e curatore delle collezioni zoologiche dell'Accademia delle scienze di Monaco di Baviera. Martius, che avrebbe compiuto 23 anni pochi giorni dopo la partenza da Trieste, era assistente all'orto botanico monacense. I due si erano conosciuti a Erlangen, la città natale di Martius, quando questi era uno studente diciottenne. Figlio del farmacista di corte, era stato introdotto alla botanica da un amico del padre, Johann von Schreber, uno degli ultimi allievi di Linneo. Dopo la morte di Schreber, la famiglia propose l'acquisto delle sue collezioni naturalistiche al re di Baviera; nel 1812, per condurre la trattativa venne inviata a Erlanger una commissione formata dal botanico ed entomologo Franz Paula von Schrank e da Spix. Entrambi furono colpiti dal giovane Martius, un brillante ragazzo prodigio, e ne raccomandarono l'ammissione come allievo all'Accademia delle Scienze di Monaco. Martius si trasferì nella capitale, dove nel 1814 si laureò in medicina e chirurgia e divenne assistente di Schrank all'orto botanico. Poco prima di partire per il Brasile pubblicò il suo primo lavoro scientifico, una monografia sulle crittogame dell'area di Erlangen. Il gruppo di Spix e Martius, insieme al professor Mikan, fu il primo a giungere in Brasile, nel luglio 1817. Nell'attesa dell'arrivo del resto della spedizione, i naturalisti incominciarono a prendere confidenza con la natura tropicale e incontrarono diversi membri della comunità tedesca di Rio, primo fra tutti il barone Langsdorff, la cui casa ai piedi delle colline alla periferia della città si trasformò nel loro quartier generale. Subito dopo aver assistito alle nozze di Leopoldina e don Pedro, Martius e Spix iniziarono le raccolte nelle immediate vicinanze della capitale, quindi trascorsero qualche giorno a Mandioca, la tenuta di Langsdorff a nord della baia di Guanabara; a novembre tornarono a Rio, dove appresero che il governo austriaco aveva deciso di dividere la spedizione in piccoli gruppi; da Monaco arrivò l'ordine di non protrarre il soggiorno in Brasile oltre due anni. L'otto dicembre, accompagnati dal pittore Thomas Ender, dal direttore delle miniere del Brasile Wilhelm von Eschwege e da un certo Dürming, console tedesco ad Anversa, i due bavaresi lasciarono Rio alla volta di Sao Paulo, dove arrivarono l'ultimo giorno dell'anno. Nel primi mesi del 1818 il gruppo esplorò il sud dello stato di Bahia, poi si spostò verso nordest per raggiungere la zona mineraria; a maggio, Ender, in seguito a una caduta da cavallo, si fratturò una gamba e fu costretto a rientrare a Rio in compagnia di Dürming. Il trio Martius, Spix e Eschwege continuò per Diamantina, Minas Novas e Montes Claros. Secondo gli accordi con gli austriaci, a questo punto avrebbero dovuto tornare a Rio, ma i due bavaresi decisero di continuare da soli. Salutato Eschwege, penetrarono nell'interno in direzione nord-nordovest fino a Carinhanha, punto di partenza per un ampio giro della Serra Geral, una delle catene costiere della Mata Atlantica; tornati a Carinhanha, raggiunsero la costa a el Salvador, dove si trovavano alla fine dell'anno. A febbraio 1819 ripartirono verso nord, percorrendo la parte settentrionale degli Stati di Bahia, Pernambuco e Piaui; l'attraversamento di questa zona estremamente arida fu uno dei momenti più duri dell'intero viaggio. All'inizio di maggio, a São Gonçalo do Amarante, nello stato di Cearà, Martius si ammalò gravemente. Una settimana dopo, Spix, che aveva contratto la bilharziosi, rischiò di morire. Appena si furono ripresi, si spostarono nel Maranhão e navigando lungo il Rio Itapicuru raggiunsero São Luis, la prima vera città che vedevano da mesi. Qui poterono spedire le collezioni a Rio, riscuotere le lettere di credito e mettere insieme i rifornimenti per la parte più eccitante dell'impresa: l'esplorazione del bacino del Rio delle Amazzoni. Il 20 luglio si imbarcarono per Belem. Dopo qualche giorno dedicato ad esplorare i dintorni della città e l'isola di Marajó, il 21 agosto erano pronti a ripartire. Viaggiando parte a dorso di mulo, parte in canoa, raggiunsero un ramo del Rio delle Amazzoni a Gurupà. Risalirono poi il fiume toccando Porto de Moz e Santarém e il 22 novembre erano a Manaus, alla confluenza con il Rio Negro. Navigarono poi lungo il Rio Solimões fino a Tefé, dove decisero di separarsi. Spix risalì il corso del Solimões fino a Tabatinga e rientrò a Manaus nel febbraio 1820, mentre Martius esplorava il Rio Japorà e a marzo si riuniva all'amico. Qualche giorno prima, la sua canoa si era rovesciata e aveva rischiato di morire annegato. Ad aprile i due ardimentosi naturalisti erano di nuovo a Belem e a giugno si imbarcarono per l'Europa con le casse delle raccolte e una coppia di ragazzi indios; il 23 agosto erano a Lisbona e prima di Natale a casa, a Monaco. Avevano percorso oltre 10.000 km, a piedi, a cavallo, a dorso di mulo, in canoa e raccolto oltre 3500 di esemplari di animali, da 25 a 30000 esemplari d'erbario ripartiti su oltre 7300 specie. La loro collezione mineralogica andò a costituire le basi della Mineralogische Staatssammlung di Monaco, così come le collezioni etnografiche quelle del Museum für Völkerkunde, oggi "Museo dei cinque continenti". Due opere monumentali I due naturalisti furono ricevuti con grande onore dal re di Baviera. Entrambi furono nobilitati e ricevettero une pensione vitalizia. Nel 1826 Martius divenne professore di botanica all'Università di Monaco e dal 1832 direttore dell'Orto botanico. Intanto, i due amici lavoravano alacremente alla pubblicazione delle loro raccolte. A quattro mani scrissero il resoconto del loro viaggio, Reise in Brasilien, in tre volumi (1823, 1828, 1831). Spix morì mentre stavano preparando il secondo, ma Martius poté completare l'opera utilizzando le note proprie e del compagno. Morto a soli 45 anni nel 1826, Spix aveva fatto in tempo a scrivere quattro monografie, dedicate rispettivamente alle scimmie e ai pipistrelli, alle testuggini e agli anfibi, agli uccelli e ai serpenti raccolti durante la spedizione. Complessivamente descrisse da 500 a 600 specie, dando il nome a numerose specie nuove; alcune portano il suo nome, come la rarissima ara di Spix Cyanopsitta spixii che gli fu dedicata dallo zoologo Wagler. Gli furono dedicati anche due generi botanici Spixia (da Leandro e da Schrank) ma nessuno dei due è oggi valido. Diversamente dal compagno di viaggio, Martius ebbe lunga vita e poté diventare uno dei più eminenti botanici della sua generazione, autore di opere che superano in importanza persino la sua prodigiosa attività di raccoglitore. Oltre al resoconto del viaggio, pubblicò saggi sull'economia, la medicina, la cultura degli indigeni del Brasile, scrisse un romanzo rimasto inedito e, ovviamente, una lunga serie di articoli e monografie sulle piante raccolte durante la spedizione. Esordì nel 1823 con Genera et species palmarum quas in itinere per Brasiliam [...] collegit [...] C.F.P. Martius: le palme, esplorando il bacino del Rio dell'Amazzoni, la regione del globo più ricca di Arecaceae, erano diventate le sue piante preferite; seguì Nova genera et species plantarum, quas in itinere per Brasiliam [...] collegit C.F.P. Martius, in tre volumi (1824–1832); nel 1827 uscì un'opera dedicata al primo amore di Martius, le crittogame, Icones selectae plantarum cryptogamicarum. Ma intanto l'attivissimo botanico stava lavorando al suo capolavoro, Historia naturalis palmarum, in tre spettacolari volumi in folio pubblicati a Lipsia tra il 1823 e il 1850. E' un'opera monumentale con più di 550 pagine di testo e 240 cromolitografie, una tecnica all'epoca appena agli esordi; molti dei disegni del secondo volume si devono allo stesso Martius. Nel primo volume il botanico getta le basi della prima classificazione sistematica delle palme e fornisce una mappa della distribuzione geografica della famiglia; nel secondo descrive le palme del Brasile; nel terzo, intitolato Expositio Systematica, descrive tutte le specie allora note, basandosi sia sulle proprie raccolte sia su tutto ciò che era stato scritto da altri botanici. Questa pietra miliare dello studio delle palme ha guadagnato a Martius il soprannome di "padre delle palme" e ha fatto dire a Humboldt: "Finché le palme saranno apprezzate e conosciute, il nome di Martius sarà famoso". L'opera suscitò anche l'ammirazione di Goethe, che probabilmente ne fu influenzato nelle sue ricerche sulle metamorfosi delle piante; del resto, l'ammirazione era reciproca: lo stesso Martius durante il viaggio in Brasile scriveva poesie, inviò diversi esemplari brasiliani al poeta e si recò a fargli visita a Weimar. Ancora più grandiosa l'impresa cui Martius si accinse a partire dal 1839: la pubblicazione di una flora complessiva del Brasile. Per realizzarla, chiamò a raccolta i più importanti botanici europei. Si tratta infatti di un'opera collettiva, che andò molto oltre la vita del suo promotore, impegnando tre generazioni di studiosi e 65 collaboratori. E' considerata una delle opere botaniche più importanti di tutti i tempi ed è ancora oggi il testo di riferimento per la flora del Brasile; fino al 2004, quando uscì Flora Rupublicae popularis Sinicae, rimase la più ampia flora mai pubblicata. La gigantesca opera fu finanziata dall'imperatore d'Austria Ferdinando I, dal re di Baviera Ludovico I e dall'imperatore del Brasile Pietro II; inizialmente fu diretta da Martius e Endlicher, che però morì già nel 1849. Martius ne rimase il solo curatore fino alla morte (1868) e curò la pubblicazione di 46 fascicoli su 130; alla sua morte gli succedettero prima August Wilhelm Eichler quindi Ignatz Urban. Completata nel 1906, Flora Brasiliensis comprende più di 20.000 pagine con la trattazione di 22.767 specie, per lo più angiosperme, non solo brasiliane, ma anche dei paesi limitrofi (Venezuela, Ecuador e Perù). Quasi 6000 all'epoca erano nuove per la scienza. Il testo è arricchito da disegni, incisioni e acquarelli di artisti come Thomas Ender, Benjamin Mary e Johan Jacob Steinmann e dalle fotografie di George Leuzinger, che ne fanno una vera opera d'arte. Membro di innumerevoli società scientifiche, Martius divenne anche una figura piuttosto nota dell'ambiente culturale monacense. Era in contatto con scienziati di tutto il mondo, che ospitava volentieri a casa sua. Ogni anno, in occasione del compleanno di Linneo (il 23 maggio) vi organizzava un festival in onore del principe dei botanici, con discorsi, poesie e canzoni. Tra i suoi lasciti, non possiamo dimenticare l'erbario. Già prima che partisse per il Brasile era ragguardevole; l'avventura brasiliana gli fruttò circa 12.000 esemplari. Anche se dopo il ritorno a Monaco non viaggiò più, continuò ad arricchire l'erbario grazie ad acquisti, invii di altri botanici e scambi. Alla sua morte, con circa 300.000 esemplari e 65.000 specie, era uno degli erbari privati più importanti del mondo. Acquistato dal Belgio, è oggi custodito nell'Orto botanico di Bruxelles ed è oggetto di un importante progetto di digitalizzazione, The Martius Project. Martius riposa nel cimitero di Monaco di Baviera. Sulla sua tomba una lastra con due palme e l'epigrafe latina In palmis semper virens resurgo, "Tra le palme risorgo sempreverde". Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Martiodendron, un'esplosione di fiori d'oro Molti colleghi dedicarono a Martius un genere botanico; si contano non meno di sei Martia, due Martiusia, cui vanno aggiunti Martiusella e Suitramia (dallo pseudonimo Suitram che Martius usava con gli amici e in alcuni documenti). Si venne così a creare un intrico di omonimi e sinonimi e si generò una confusione che rischiava di privare il grande botanico del giusto riconoscimento; per rimediare a tanta ingiustizia nel 1935 lo statunitense H.A. Gleason rinominò Maritiodendron un genere di Fabaceae sudamericane che nel 1818 Bentham aveva battezzato Martia e nel 1840 aveva rinominato Martiusia. Martiodendron riunisce cinque specie di alberi presenti in vari habitat del Sud America atlantico : dalla foresta pluviale alle foreste stagionalmente inondate alla savana; molto opportunamente, tra le zone di diffusione (Guyane, Venezuela meridionale, Brasile amazzonico, nord-est brasiliano) ci sono anche le due principali aree visitate da Martius, il bacino del Rio delle Amazzoni e gli Stati brasiliani di Bahia, Piauí, Maranhão. Sono alberi da medi a grandi la cui chioma svetta nello strato superiore della foresta, con robusti tronchi che in alcune specie si allargano in contrafforti; hanno foglie imparipennate con foglioline da ovate a ellittiche, da coriacee a membranacee. A farsi notare sono soprattutto le infiorescenze panicolate, fitte di fiori giallo oro con cinque petali imbricati alla base, corolla lievemente zigomorfa e lunghi stami. Le due specie più diffuse sono le amazzoniche M. parvifolium e M. elatum; si dice che la fioritura di quest'ultimo lungo le rive del fiume Tapajós, nello stato di Pará, all'inizio della stagione delle piogge, offra uno spettacolo senza uguali. Se Martius lo vide in tanta gloria, sicuramente sarà contento di questa complicata, ma più che meritata dedica. Qualche informazione in più nella scheda. Le testimonianze d’epoca descrivono il protagonista della nostra storia, il barone austro-tedesco Ludwig von Welden, come un militare tutto d’un pezzo, integerrimo e poco incline ai compromessi. Era un uomo d'ordine, fedele cane da guardia della Restaurazione, che nella sua carriera sembra essersi specializzato nella repressione dei moti liberali, da quello piemontese del ’21 alle rivoluzioni del ’48, fino agli anni in cui governò Vienna con il pugno di ferro. Eppure era anche un uomo di profonda cultura, un conversatore affabile, uno scrittore prolifico dalla penna facile e dallo sguardo indagatore, un alpinista appassionato, innamorato delle montagne e dei loro fiori. Tra gli episodi più sorprendenti della sua vita di repressore duro e puro, una romantica storia d'amore con una patriota italiana. Come botanico, fu qualcosa di più di un dilettante, in corrispondenza con importanti studiosi europei; a questo amante della flora alpina è giustamente dedicata una specie montana, non figlia delle Alpi ma dei vulcani del Centro America: Weldenia candida. Tra repressione, montagne, fiori e amori improbabili Il 25 agosto 1825, giorno in cui si festeggia san Luigi, un gruppo di alpinisti capeggiato dal colonnello tedesco Ludwig von Welden raggiunge per la prima volta una delle cime minori del gruppo del Rosa, a quota 4342 metri sul livello del mare. In onore del santo del giorno (ma un po’ anche di se stesso) Welden la battezza Ludwigshöhe, “corno (o cima) di Ludovico”. È solo una delle otto vette del massiccio cui dà il nome nella monografia Il Monte Rosa. Schizzo topografico e naturalistico, pubblicata a proprie spese a Vienna nel 1824. Una di esse è Parrot Spitze, la punta di Parrot, che abbiamo già incontrato parlando dello scalatore dell’Ararat. Come Parrot, anche Welden era un appassionato alpinista. Nato nel Ducato del Württemberg, fin da giovanissimo partecipò alle guerre contro la Francia rivoluzionaria e napoleonica, a partire dal 1802 nell’esercito austriaco, aggregato allo stato maggiore e al servizio topografico, distinguendosi per il coraggio e lo spirito d’iniziativa; nelle fasi finali del conflitto servì proprio nel settore alpino, anche con funzioni di spionaggio. Nel 1815 fu inviato in Svizzera a osservare i movimenti delle truppe francesi in ritirata e gli furono affidate la ricognizione topografica delle ardue montagne del Giura e l’occupazione di alcuni valichi. Nel 1816 fu promosso colonnello e capo dell’ufficio topografico. Nel corso della carriera militare, oltre che dei panorami delle Alpi si era appassionato anche della loro flora. Ad iniziarlo alla botanica, quando era capitano di stato maggiore a Salisburgo, fu Franz Anton Braune; a Vienna, completò poi la sua formazione alla scuola di Jacquin. Nel marzo 1821, allo scoppio dei moti in Piemonte, fu nominato capo di stato maggiore dei reparti inviati a reprimere l’insurrezione. Fu così che in un salotto torinese incontrò un’affascinante nobildonna lombarda, Teresa Sopransa. Vedova da un ufficiale napoleonico, il conte Ignazio Agazzini, essa faceva la spola tra Milano e Torino per seguire i tre figli, che studiavano in un collegio militare della capitale sabauda. O per lo meno, questa era la copertura. In realtà, all’insaputa del colonnello austriaco, Teresa era una “giardiniera”, ovvero un membro della Carboneria, intima di Federico Confalonieri, e il suo ruolo era proprio assicurare i collegamenti tra i carbonari lombardi e quelli piemontesi. Nonostante dal punto di vista politico militassero in campo opposto, tra i due si accese una scintilla e la contessa invitò Welden a farle visita nella sua villa di Ameno, sul lago d’Orta. Il colonnello raccolse l’invito qualche mese dopo, nel giugno 1821; e nella bella villa di Ameno, oltre che della affascinante contessa, si innamorò del Monte Rosa, di cui poteva godere la splendida vista panoramica. Intanto la rete della polizia si stringeva attorno ai carbonari milanesi; nel dicembre 1821 Federico Confalonieri fu arrestato; nella sua corrispondenza si trovarono diverse lettere di Teresa, compromessa anche dalla confessione dello stesso Confaloneri. La contessa fu arrestata e interrogata; fu molto più ferma dell’amico nel respingere ogni accusa, giustificando quelle lettere con una relazione intima. Dopo poche domande, venne rilasciata, probabilmente proprio grazie all’intervento di Welden. La storia d’amore tra il colonnello austriaco e la “giardiniera lombarda” continuò e i due improbabili innamorati nel 1829 si sposarono a Trieste. Purtroppo, fu un legame di breve durata, perché Teresa morì appena due anni dopo. La passione di Welden per la montagna e i suoi fiori lo accompagnò invece per tutta la vita. Incaricato di dirigere una ricognizione topografica del tratto alpino compreso tra il Monte Bianco e il Monte Rosa, nel 1822 si stabilì a Macugnaga, raccogliendo anche informazioni etnografiche, zoologiche e botaniche, che pubblicò nella già citata monografia sul Monte Rosa, che include una rassegna della flora del massiccio. Nel 1824 visitò Napoli e la Sicilia, entrando in contatto con Tenore, con il quale scambiò esemplari botanici; lo stesso anno, finanziò la pubblicazione sulle piante dalmate raccolte da Portenschlag, Enumeratio plantarum in Dalmatia lectarum. L’anno successivo intraprese una spedizione botanica nelle Alpi attraverso Stiria, Tirolo e Svizzera. Nel 1828 venne trasferito in Dalmazia come aiutante generale; con una flora ricca di endemismi ancora relativamente poco conosciuta, la regione suscitò l’entusiasmo di Welden, che la percorse in molte escursioni, riferite in diversi contributi sulla rivista Flora oder Botanische Zeitung di Regensburg. Come governatore militare di Zara, intorno alla cittadella fece costruire un parco aperto non solo ai militari, ma anche ai civili, il primo parco pubblico del paese (ancora esistente, oggi si chiama Parco Regina Elena Madijevka). Nei tre anni in cui sostenne questo incaricò, estese l'esplorazione anche ad altre zone della penisola balcanica, comprese l’Albania e il Montenegro. Tra il 1832 e il 1838 fu delegato alla commissione militare centrale della Confederazione germanica a Francoforte; continuò a collaborare con la società botanica di Regensburg e con Reichenbach, cui inviò diversi contributi per la sua Flora germanica. Nel 1838, promosso maresciallo di campo, venne nominato comandante della divisione di Graz, e ne approfittò per creare un giardino di gusto romantico con sentieri serpeggianti e piante esotiche lungo le pendici del Monte del Castello (Grazer Schloßberg). Nel 1843, con il grado di generale, divenne governatore del Tirolo; come tale, nel 1848 assicurò i collegamenti tra il generale Radetzky e l’Austria, quindi partecipò a diverse azioni militari in Italia, tra cui il blocco di Venezia e la repressione delle città emiliane insorte. La sua azione decisa e spietata gli guadagnò la stima dell'Imperatore, che in quell’anno difficile lo inviò a controllare l'ordine pubblico prima in Dalmazia, poi a Vienna, quindi in Ungheria, dove si dimostrò tanto inflessibile e più realista del re da essere rimosso dopo pochi mesi. Tornato a Vienna come governatore della città, ripristinò l’ordine con il pugno di ferro, facendo internare migliaia di cittadini e imponendo un pervasivo regime poliziesco, basato sullo spionaggio e la delazione. In cambio, fu promosso Feldzeugmeister, il secondo più alto grado dell’esercito austriaco. Al contrario dei cittadini di Zara e Graz, che gli erano grati per i giardini che aveva fatto costruire per loro, quelli di Vienna, ovviamente, lo odiarono profondamente, a quanto pare ricambiati. Così nel 1851, quando, per ragioni di salute, Welden diede le dimissioni, decise di tornare a Graz, dove morì due anni dopo. Qui, per se stesso, aveva creato un giardino alpino in cui ogni pianta era coltivata nelle condizioni ottimali, che egli aveva studiato dal vivo nei suoi viaggi. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Weldenia candida, figlia dei vulcani Come esploratore della flora delle Alpi e della penisola balcanica, Welden segnalò alcune entità ancora sconosciute; tra i nomi di cui ha la paternità, l’unico oggi ancora valido è Anthyllis aurea Welden ex Holst, una bella Fabacea a cuscinetto diffusa in ampia parte della penisola balcanica. Lo ricordano nell’epiteto Plantago weldenii Rchb., la piantaggine di Welden, un’erbacea di diffusione euro-mediterranea; il bellissimo Crocus weldenii Hoppe & Fürnr., lo zafferano di Welden, una specie illirica distribuita dai confini albanesi del Montenegro al Carso triestino e goriziano; Primula x weldeniana (A.Kern.) Dalla Torre & Sarnth., un ibrido naturale tra P. hirsuta e P. spectabilis, raro endemismo delle Alpi meridionali; Centaurea jacea subsp. weldeniana (Rchb.) Greuter, il fiordaliso di Welden, anch’esso un’entità illirica, presente in alcune stazioni delle nostre Alpi orientali. Ma a Welden è stato dedicato anche un genere, che ci porta molto lontano dalle Alpi o dalla penisola balcanica. Il primo esemplare fu raccolto nel cono vulcanico del messicano Nevado de Toluca verso la fine degli anni ’20 dell’Ottocento da Karwinsy e nel 1829 Julius Schultes - figlio di uno dei botanici viennesi amici di Welden - lo denominò Weldenia candida, pubblicandone la descrizione proprio in Flora oder Botanische Zeitung di Regensburg. È l’unica rappresentante di questo genere monotipico della famiglia Commelinaceae, che vive sulle pareti e i crateri dei vulcani di Messico e Guatemala, tra 2400 e 4000 metri. Nel 1893 alcuni esemplari raccolti nel Vulcano de Agua in Guatemala furono introdotti a Kew, dove questa deliziosa piccola specie è ancora coltivata nel giardino roccioso e nel giardino boschivo, dove fiorisce a fine primavera. Ha radici carnose, foglie lineari lanceolate, e cime compatte di fiori candidi con una lunga corolla tubolare trilobata, che ricordano singolarmente un croco. Ciascun fiore dura solo un giorno, ma nelle piante accestite molti fiori vengono prodotti in successione nell’arco di varie settimane. Qualche approfondimento nella scheda. I secoli centrali del Medioevo tendono alle imprese gigantesche: si costruiscono cattedrali che toccano il cielo, Dante osa un poema che percorre i tre regni ultraterreni, il domenicano Vincenzo di Beauvais in Speculum majus sintetizza in oltre ottanta volumi tutto lo scibile. Non da meno il confratello Alberto di Bollstädt, più noto con il soprannome Alberto Magno, ovvero Alberto il Grande, che espose per i suoi allievi l'intero corpus aristotelico, spaziando dalla teologia, alla morale, alla logica, alla psicologia, ai diversi settori delle scienze naturali. A differenza di Vincenzo, egli non fu solo un compilatore, ma un pensatore originale, che seppe riunire la più stringente logica aristotelica all'esperienza diretta. E' sua l'unica opera di botanica generale nei diciotto secoli che separano Teofrasto dal Rinascimento, De vegetabilibus et plantis, in cui, tra l'altro, fu il primo a distinguere monocotiledoni e dicotiledoni. Lo storico della botanica Ernest Meyer, curatore della prima edizione critica di questa opera, volle celebrarlo con la dedica della bellissima Alberta magna. Il dottore universale Maestro di san Tommaso, insieme al quale Dante lo fa comparire tra gli spiriti sapienti del cielo del Sole, il domenicano Alberto di Bollstädt, più noto come Alberto Magno, ovvero Alberto il Grande, fu uno dei più grandi pensatori dell'età medievale, un filosofo, un teologo e uno studioso di tale sapienza da essersi guadagnato il soprannome di "dottore universale". Gli sono ascritte almeno venti opere (più altrettante spurie) che spaziano dalla teologia, alla logica, alla metafisica, all’etica, alla politica, alla psicologia, alla astronomia, alla musica, alla mineralogia, alla zoologia e alla botanica. In questo campo, fu anzi l'unico, nel lunghissimo periodo che separa Teofrasto dal Rinascimento, ad aver studiato le piante di per sé, e non per i loro usi pratici, Intorno al 1250, l’ordine domenicano lo incaricò di dirigere lo Studio generale di Colonia, destinato alla formazione dei membri tedeschi dell’ordine. Per “rendere intellegibile” ai suoi allievi la filosofia aristotelica appena riscoperta, Alberto decise di esporla in una serie di commenti, in forma di parafrasi accompagnate da approfondimenti e digressioni. In tal modo, sulla scorta delle opere di Aristotele (vere o presunte), venne a comporre una vera e propria enciclopedia universale, in cui le scienze naturali occupano uno spazio non secondario. Anche se non conosciamo con precisione le date di redazione delle singole opere, è probabile che dopo aver redatto il commento a De anima, in cui si distinguono tre tipi di anima (vegetativa, sensitiva, razionale), Alberto abbia lavorato contemporaneamente al commento delle opere del corpus aristotelico sulle piante (dotate di anima vegetativa) e sugli animali (dotati di anima vegetativa e sensitiva). Per questi ultimi, nel suo De animalibus egli si rifece a tre opere del filosofo greco: Historia animalium, De partibus animalium, De generatione animalium, tradotte all'arabo intorno al 1220 da Michele Scoto e riunite appunto sotto il titolo De animalibus. Il testo di riferimento di De vegetabilibus et plantis è invece lo pseudo aristotelico De plantis, che nel Medioevo veniva attribuito a Aristotele, ma in realtà si deve probabilmente a Nicola Damasceno, storico e filosofo vissuto all’epoca di Augusto. Per arrivare fino al nostro studioso domenicano, queste opere avevano compiuto una strada lunga e tortuosa. A partire dal VI secolo d.C., diversi libri del corpus aristotelico vennero tradotti dal greco in siriaco; nel corso del Medioevo, gli studiosi arabi a loro volta li tradussero in arabo; in questa veste, non molti anni prima della nascita di Alberto approdarono in Europa dove furono tradotti in latino. Di questo gruppo fa parte anche il breve trattato di Nicola sulle piante, tradotto il latino da Alfredo di Sarhesel (Alfredus Anglicus) intorno al 1200. Si trattava di un'operina esile, e certamente insoddisfacente. Alberto ne fece il punto di partenza per una trattazione ben più articolata, arricchita da informazioni ricavate da altre fonti, in particolare il Canone di Medicina di Avicenna e la Practica del medico salernitano Matteo Plateario per le piante officinali, e l’Opus agricolturae di Palladio per l’agricoltura, dall'interrogazione di erboristi e agronomi, ma soprattutto delle osservazioni e dalle indagini dello stesso Alberto, convinto che “in queste questioni la migliore maestra è l’esperienza”. Logica aristotelica e conoscenza sperimentale De vegetabilibus et plantis comprende sette libri, a loro volta divisi in trattati suddivisi in più capitoli. Il primo libro ha funzione di introduzione. Nel primo trattato, Alberto spiega perché, dopo aver studiato l’anima, è bene dedicarsi ai vegetali, esseri viventi dotati di anima vegetativa. Seguono puoi varie riflessioni (sono le prime “digressioni”) sulla vita delle piante, le loro percezioni sensoriali, le loro manifestazioni. Alberto conclude che quella dei vegetali è una vita nascosta (vita occulta): non possiamo studiare direttamente l’anima delle piante, che lavora in modo inavvertito, mentre si manifesta materialmente nel corpo delle piante e nelle funzioni di nutrizione, crescita e propagazione. Nel secondo trattato, Alberto commenta il primo libro dello pseudo aristotelico De plantis, in una parafrasi che funge quasi da sommario degli argomenti che svilupperà in modo originale nel secondo libro (le parti delle piante, il confronto degli organi dei vegetali con quelli degli animali, la classificazione); segue un’analisi delle differenze tra piante coltivate e piante selvatiche, in termini di collocazione, alimentazione, varietà di frutti, profumo, gusto, propagazione. Il cuore dell’opera di Alberto, la parte più originale e interessante ai nostri occhi, è il secondo libro, anch’esso articolato in due trattati, l’unica “botanica generale” dai tempi di Teofrasto, in cui la logica aristotelica si unisce all’esperienza diretta per studiare le piante nella loro essenza (per principium vitae occultae, “secondo l’essenza della loro vita nascosta”) e nella loro manifestazione materiale. Come già in Aristotele e Teofrasto, le piante sono classificate in alberi, arbusti, suffrutici (olus), erbe e funghi, una categoria introdotta per la prima volta dallo stesso Alberto. Comunque il sapiente domenicano si affretta ad osservare che questa divisione è illogica, perché nel corso del suo sviluppo una pianta può passare da una forma all’altra (come le rose, tra le piante da lui più attentamente studiate, che possono presentarsi come arbusti ma anche veri e propri alberi). Egli passa quindi ad esaminare le singole parti, o organi, delle piante, divisi in tre categorie: organi integrali essenziali (partes integrales essentiales); organi accidentali essenziali (partes accidentales essentiales); organi accidentali non essenziali (partes accidentales non essentiales). Gli organi integrali essenziali sono la linfa (succus) che contiene in sé (in potentia) tutte le altre parti della pianta, e le parti attive della pianta (in actu); queste ultime sono loro volta suddivise in membri organici (membra officilia), ovvero quelli che servono a mantenere l’individuo in vita, cioè la radice (radices), i canali attraverso cui scorre la linfa (venae), i nodi (nodi), il midollo (medulla) e la corteccia (cortex), e membri similari (membra similia) che includono il legno, per gli alberi, e la “carne”, ovvero il fusto, per le erbe. La parti accidentali essenziali sono quelle che servono a conservare la specie, non l’individuo: le foglie, i fiori, i frutti e i semi. Nella loro descrizione, Alberto dimostra eccezionale precisione e grande capacità di osservazione: discute la forma e le dimensioni di vari tipi di foglie, e analizza il fiore come presagio del futuro frutto, descrivendo stami, ovario, colori. Inoltre, trattando della corteccia, è forse il primo a distinguere monocotiledoni (tunicatae, ovvero piante dotate di tunica) e dicotiledoni (corticatae, ovvero piante dotate di corteccia). Gli elementi non essenziali sono le spine, distinte per la prima volta da Alberto in quelle derivate dalla modificazione dei fusti e in quelle derivate dalla modificazione delle foglie. Egli è infatti conscio che gli organi delle piante si trasformano; ritiene ad esempio che i viticci delle viti siano grappoli mai formati. Il terzo libro è occupato da due digressioni, la prima dedicata ai frutti e alle loro differenze rispetto alle altre parti della pianta; segue l’esame di vari esempi di frutti e semi, dei loro colori e dei tipi di germinazione. Nel secondo trattato si studiano vari tipi di gusti e odori di frutti, succhi e semi, un elemento che secondo Alberto (che qui si rifà all’esperienza degli erboristi) è essenziale per riconoscere le diverse specie. Il quarto libro è di nuovo una parafrasi dello pseudo aristotelico De plantis, in quattro trattati. Nel primo si esamina la relazione tra le piante e i quattro elementi; nel secondo si trattano le regioni favorevoli o ostili alla fruttificazione; nel terzo le basi della propagazione e della fruttificazione delle piante dotate di radice (con una lunga digressione sulle differenze tra i vari tipi di spina); nel quarto il colore delle piante, la differenza tra sempreverdi e caducifoglie, la linfa di alberi e erbe, la crescita degli aghi di pino in inverno. I due trattati del quinto libro ospitano altrettante digressioni. La prima integra vari argomenti già esposti in precedenza e aggiunge questioni come se possa esserci fusione tra le anime di due piante che crescono insieme (come l’olmo e la vite) e se le piante possano trasformarsi l’una nell’altra. La seconda si occupa delle virtù delle piante, in associazione con i quattro elementi, con particolare attenzione alle piante alimentari, officinali e magiche. Il sesto libro è un vero e proprio erbario ordinato alfabeticamente, in cui Alberto si rifà a Avicenna e Plateario per le piante officinali, ma attinge ampiamente alle proprie conoscenze dirette per trattare specie dell’Europa centrale e del Mediterraneo. È diviso in due trattati, il primo (in 36 capitoli) dedicato agli alberi, il secondo (in 22 capitoli) a arbusti e erbe; di ogni specie, è fornita la descrizione, l’habitat, le proprietà e gli usi. Infine, il settimo libro, basato fondamentalmente su Palladio, è un trattato di agricoltura. Un albero fiammeggiante per il protettore dei naturalisti Riconosciuto già in vita come auctoritas per la sua somma sapienza, per i suoi studi nei campi dell'astronomia, dell'astrologia, della mineralogia e dell'alchimia Alberto ebbe anche fama di mago. Si arrivò ad attribuirgli la scoperta della pietra filosofale e sotto il suo nome circolarono diverse opere spurie, la più nota delle quali è il Libro dei segreti, Liber Secretorum Alberti Magni virtutibus herbarum, lapidum and animalium quorumdam, meglio noto come "Grande Alberto", in contrapposizione al "Piccolo Alberto", un libro di magia alchemica e cabalistica comparso all'inizio del XVIII secolo. Quanto alla Chiesa cattolica, nel 1622 Alberto fu beatificato da Gregorio XV; nel 1931, su sollecitazione dei vescovi tedeschi, fu proclamato santo da Pio XI e riconosciuto come dottore della Chiesa; dieci anni più tardi, Pio XII lo dichiarò patrono dei cultori delle scienze naturali. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Come naturalista, fu noto e apprezzato soprattutto in Germania; tra i suoi estimatori, lo stesso Humboldt. Tuttavia a riscoprire il contributo di Alberto Magno alla botanica fu il tedesco Ernest Meyer, che nella sua Geschichte der Botanik (1854-57) scrisse di lui: "Nessun botanico che sia vissuto prima di Alberto può essere paragonato a lui, tranne Teofrasto, che non conosceva; e dopo di lui nessuno ha dipinto la natura in tali vividi colori, o l'ha studiata così approfonditamente, fino all'arrivo di Conrad von Gessner e Andrea Cesalpino. Tutti gli onori, dunque, vanno tributati all'uomo che ha fatto tali stupefacenti progressi nella scienza della natura, da non trovare nessuno, non che lo sopravanzi, ma che lo eguagli nei tre secoli successivi." Meyer, che fu anche il curatore della prima edizione critica di De vegetabilibus, volle onorare Alberto anche con la dedica di una pianta, battezzando Alberta magna E. Mey. (1838) una spettacolare pianta sudafricana. Appartenente alla famiglia Rubiaceae, è un arbusto o un piccolo albero con lucide foglie sempreverdi simili a quelle degli agrumi, verde scuro nella pagina superiore, più pallide in quella inferiore, e smaglianti infiorescenze di fiori tubolari rosso brillante; nel paese d’origine, fiorisce dalla tarda estate all’autunno (tra febbraio e giugno). In passato furono assegnate al genere Alberta altre specie originarie del Madagascar, che tuttavia successivamente sono state trasferite ad altri generi; oggi Alberta è dunque un genere monotipico endemico delle foreste e dei fondi valle del Transkei nelle province del Capo Orientale e del KwaZulu-Natal. Qualche approfondimento nella scheda. La famiglia Begoniaceae ha una curiosa particolarità: comprende due soli generi, opposti per ampiezza e diffusione. Da una parte c'è l'enorme (e notissimo) genere Begonia, con circa 1400 specie, di casa in una vastissima area tropicale che spazia dall'Asia all'America all'Africa; dall'altra il minuscolo genere Hillebrandia, con una sola specie, raro endemismo di alcune isole dell'arcipelago delle Hawaii. Da quando è stata scoperta nel 1865, Hillebrandia sandwichensis ha destato curiosità per diverse ragioni, non ultima il fatto che è tre volte più antica delle isole dove vive. Anche il suo dedicatario, il medico Wilhelm Hillebrand, è una figura fuori del comune: arrivato nell'arcipelago alla ricerca di un clima propizio alla sua salute, vi visse vent'anni e vi lasciò un'eredità che ha contribuito non poco a riplasmarne la demografia, l'economia e la stessa storia naturale. Pioniere dello studio delle piante delle Hawaii, è autore di una monumentale flora che ancora dopo oltre un secolo è considerata un testo di riferimento. Vent'anni nelle isole Nell'Ottocento la tubercolosi, di cui non si conoscevano ancora né le cause né la cura, era tanto diffusa da essere soprannominata "male del secolo". Uno dei pochi rimedi per provare a sfuggirvi era, letteralmente, cambiare aria: nei sanatori in montagna, nel clima mediterraneo (come fece inutilmente Chopin a Maiorca), nei mari del sud (come fece, anch'egli senza successo, Stevenson). Tra questi "viaggiatori della salute" c'è anche il medico tedesco Wilhelm Hillebrand (1821-86); dopo aver esercitato qualche anno la professione in patria, essendo appunto malato di tubercolosi lasciò la Germania per cercare salvezza in un clima più caldo e propizio. Provò in Australia, nelle Filippine, in California, finché alla fine del 1850 arrivò alle Hawaii. Notando un immediato giovamento, decise di fermarsi. Ci sarebbe rimasto vent'anni. Divenne un medico di successo, che contava tra i suoi pazienti la stessa famiglia imperiale, medico capo del Queen Hospital, membro del Dipartimento della Sanità, studioso di malattie tropicali, primo vicepresidente dell'Hawaiian Medical Society. Il suo coinvolgimento nella vita dell'arcipelago non si limitò al campo sanitario; dopo aver dato una costituzione al paese, il re Kamehameha V lo volle nel proprio Consiglio segreto. Nel 1865, quando con la famiglia intraprese un viaggio di piacere in Asia orientale, Hillebrand venne nominato Commissario all'immigrazione, con l'incarico di facilitare l'immigrazione di lavoratori asiatici che potessero sostituire i nativi decimati delle epidemie. Grazie al suo impegno, arrivarono così nelle isole le prime decine di cinesi (oggi gli asiatici costituiscono il 38,6% della popolazione delle isole, una delle più multietniche del globo). Durante questo viaggio, durato circa un anno, per incarico della Hawaiian Agricultural Society, che aveva deliberato un finanziamento di 500 dollari, ricercò piante e animali da introdurre nelle isole. Fu così che da Calcutta, Singapore e Ceylon, al sicuro nelle scatole di Ward, arrivarono pianticelle di arance, mandarini, litchi, jackfruit, Prunus mume, plumerie, banyan, eugenie, canfora, cinnamomo. Come gli esseri umani che Hillebrand contribuì a far giungere nelle Hawaii, anche le piante dal lui introdotte hanno mutato il volto dell'arcipelago; molte vi sono oggi largamente coltivate, come il litchi di cui le Hawaii sono uno dei massimi produttori mondiali o la plumeria, che delle isole è addirittura diventata il simbolo; altre si sono naturalizzate a discapito della flora nativa. Molte essenze tropicali Hillebrand le acquistò per il suo stesso giardino, che sorgeva alle porte di Honolulu in un terreno che nel 1853 gli era stato ceduto dalla regina Kalama perché vi costruisse la sua casa. Il medico tedesco lo trasformò in un raffinato giardino botanico, dove accanto alle piante native crescevano quelle portate dai suoi viaggi, con boschi, cascatelle, spazi per gli animali esotici. Nel 1884, quando capì che non sarebbe più tornato alle Hawaii, Hillebrand lo vendette alla famiglia Foster, che continuò a sviluppare il giardino. Nel 1930, l'ultima proprietaria, Mary E. Foster, lo lasciò in eredità alla città a condizione che diventasse un parco pubblico. Oggi, con il nome Foster Botanical Garden, è il più antico degli orti botanici delle Hawaii, famoso soprattutto per la sua collezione di orchidee. Nell'estate del 1871, per permettere al figlio maggiore di seguire una scuola preparatoria negli Stati Uniti e poi l'università in Germania, Hillebrand lasciò le Hawaii con la famiglia; trascorse l'inverno successivo a Cambridge Massachussets dove Asa Grey lo aiutò a identificare le specie che aveva raccolto nel ventennale soggiorno nell'arcipelago, in vista della pubblicazione di quella che sarebbe diventata la sua Flora of Hawaiian Islands. Dopo qualche anno tra Svizzera e Germania, la salute malferma della moglie lo spinse a trasferirsi per qualche tempo a Madeira quindi a Tenerife. Nel 1877 ritornò definitivamente in Germania, continuando fino alla morte a lavorare alla sua opera. Rimase comunque in contatto con le Hawaii; in particolare, trovandosi a Madeira proprio mentre imperversava l'epidemia di peronospora, che aveva lasciato centinaia di viticoltori sul lastrico, promosse il trasferimento nelle Hawaii di molte famiglie. Lo stesso fece poi anche dalla Germania. Una sintesi della sua vita nella sezione biografia. La monumentale opera di una vita Fin dal suo arrivo nell'arcipelago, Hillebrand, che già si interessava di botanica e aveva raccolto piante durante il breve soggiorno in Australia, fu colpito dalla ricchezza e dalla diversità della flora dell'arcipelago. Incominciò così a raccogliere campioni di erbario, che inizialmente inviò all'orto botanico di Melbourne (alcuni sono preziosissimi perché costituiscono l'unica testimonianza di specie che nel frattempo si sono estinte), quindi a Berlino (in gran parte purtroppo perduti durante la Seconda Guerra Mondiale). Decise quindi di esplorare in modo sistematico l'arcipelago, con l'obiettivo di scrivere una flora il più possibile completa delle specie autoctone e introdotte. Nell'arco di vent'anni, spesso accompagnato dal figlio maggiore William Francis - che sarebbe divenuto un chimico di fama mondiale - visitò tutte isole maggiori dell'arcipelago (Hawaii, Kauai, Oahu, Molokai, Lanai, Maui). Era anche in contatto epistolare con molti botanici, soprattutto statunitensi, che grazie al suo esempio furono stimolati ad interessarsi di questa flora così peculiare. Dopo vent'anni di ricerca sul campo e altrettanti di studio dei materiali raccolti, Hillebrand riuscì a completare il suo opus magnum proprio alla vigilia della morte, intervenuta, inattesa, nel 1886. In quel momento, parte del manoscritto si trovava nelle mani dello stampatore, che ne aveva tirato qualche foglio di prova. Ad assumersi il compito di curane la pubblicazione postuma fu così il figlio William Francis, con l'aiuto di un amico del padre, il professor Askenasy di Heidelberg. Rimase in parte incompleta proprio l'introduzione, un interessantissimo saggio in cui Hillebrand analizza le peculiarità della flora hawaiiana, frutto dell'isolamento, del vulcanismo e di un clima quanto mai favorevole; non mancano i paralleli con altre due flore insulari ricche di endemismi, quelle di Madeira e delle Canarie. Secondo i suoi calcoli, su 999 specie recensite, ben 653 erano endemiche (una percentuale quasi senza paragoni), 207 native ma presenti anche altrove, 24 introdotte dagli hawaiani in tempi remoti, 115 di recente introduzione; proprio queste ultime si sarebbero rivelate un pericolo mortale per le specie autoctone, molte delle quali, da quando Hildebrand le segnalò, sono scomparse proprio a causa della pressione antropica, inclusa l'introduzione di piante aliene (e, come abbiamo visto, il nostro ben intenzionato dottore diede il suo contributo forse più di ogni altro). Benché privo di figure, se si escludono le mappe delle isole, il ponderoso volume fu una pietra miliare nello studio della flora hawaiana, un'opera di riferimento imprescindibile per tutti gli studiosi successivi, tanto da essere ancora ristampata (con l'aggiunta di immagini e previa la modernizzazione della nomenclatura) nella seconda metà del Novecento. I misteri di Hillebrandia E' ovvio che questo pioniere dello studio della flora delle Hawaii sia ricordato da diverse piante di quelle isole, come Embelia hillebrandii, Isodendrion hillebrandii, Suttonia hillebrandii, Pritchardia hillebrandii. Nel 1865 nell'isola di Maui egli raccolse una curiosa Begoniacea; ne informò il direttore di Kew, W.J. Hooker; fu così che Daniel Oliver, curatore dell'erbario di quel giardino botanico, poté studiarla e assegnarla non solo a una specie nuova, ma a un nuovo genere con il nome Hillebrandia sandwichensis. Si tratta dell'unica rappresentante di questa famiglia a non appartenere al genere Begonia (che di specie ne comprende più di 1400). Le differenze principali riguardano l'ovario libero nel suo terzo superiore, la presenza di tepali raccolti in due serie di verticilli nei fiori femminili, nonché alcune particolarità dei frutti e del polline. Un tempo era presente nelle isole di Kaui, Maui e Molokai, oggi è limitata alle prime due, dove sta diventando sempre più rara. Il suo habitat - simile a quello di molte Begoniae - sono gli ombrosi e umidi burroni della foresta pluviale di montagna, tra 900 e 1800 m. Nota nelle isole con il nome aka'aka'awa', è un'erbacea rizomatosa di raffinata bellezza, alta oltre un metro con grandi foglie palmate e grappoli di delicati fiori bianco-rosati, con 8-10 tepali a simmetria radiale. Recenti studi filogenetici hanno confermato la sua appartenenza a un genere proprio. A fare discutere è la sua origine: è l'unica rappresentante della sua famiglia a vivere nell'arcipelago e, per la sua struttura, risulta più arcaica delle sue sorelle Begoniae, da cui si ritiene si sia separata tra 51 e 65 milioni di anni fa. Da dove, quando e come è arrivata nelle Hawaii, che, almeno nel loro stadio attuale, sono di 20 milioni di anni più giovani? Considerando che le isole di oggi sono il risultato di sollevamenti della crosta terrestre e di eruzioni vulcaniche relativamente recenti, ma devono essere state precedute da isole più antiche, oggi livellate e scomparse, l'ipotesi più verosimile è che la nostra pianta relitta, dopo essere giunta dall'area Maleso-Pacifica, dove era nata ed oggi è scomparsa, vivesse in isole del Pacifico oggi sommerse e sia riuscita a sopravvivere a tanti sconvolgimenti e catastrofi trasportata da un'isola all'altra sulle ali (o meglio sulle zampe) degli uccelli che anche oggi provvedono alla dispersione dei suoi semi. Qualche approfondimento nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
May 2024
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